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Progetto filosofi – Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche
Nell’intervista del 21 marzo 1996, lo scienziato Renato Dulbecco (Catanzaro, 22 febbraio 1914 – La Jolla, 19 febbraio 2012), premio Nobel per la medicina nel 1975, spiega gli obiettivi e i limiti del “Progetto Genoma”, nato per assolvere alla conoscenza completa dei nostri geni e dei geni di qualunque specie. Il progetto partì in Italia grazie all’interesse ad esso dimostrato dal prof. Rossi-Bernardi, che era allora presidente del C.N.R.. Il problema principale è di leggere il messaggio contenuto nella molecola di DNA. Dulbecco spiega come queste ricerche si muovano studiando due “mappe”, che l’ingegneria genetica permette di individuare . La ricerca sul genoma è iniziata partendo da uno studio genetico del cancro. Dulbecco spiega le diverse fasi sperimentali che hanno condotto a rivelare l’importanza dello studio genetico per il cancro. Dalla sperimentazione sugli animali ci si è trasferiti poi a quella sulle culture. Il “Progetto Genoma” interessa quindi tutto il campo dello studio della vita Una serie di problemi sono diventati studiabili estendendo un’analisi biologica, prima ristretta ai batteri ed ai virus, anche alle cellule animali.
Le difficoltà scientifiche che questo progetto incontra sono, spiega Dulbecco, tecnologiche. Dulbecco spiega in quale modo questo progetto coinvolga fisici, matematici, medici e non solo biologi. L’importanza di questa ricerca risiede, dunque, in primo luogo nella conoscenza di noi stessi che essa ci permette di raggiungere, in secondo luogo essa ci permette delle notevoli applicazioni in campo medico. Dulbecco illustra l’importanza di questa ricerca per la diagnosi prenatale. Alcune considerazioni vengono svolte dal professore intorno alle possibili applicazioni terapeutiche future. Oggi si è capito che il cancro è una malattia dei geni; sappiamo anche che l’alterazione dei geni produce altre alterazioni dei geni che sono legate a quella prima alterazione. Da questa studio dipende la possibilità di curare il cancro. Sugli eventuali pericoli di manipolazione della persona e sulle altre questioni attinenti alla sfera della integrità della persona Dulbecco elenca alcuni degli aspetti positivi e alcuni degli aspetti negativi che, in futuro, potrebbero presentarsi in conseguenza delle ricerche sul genoma.
1.Professor Dulbecco, prima di costruire l’avventura scientifica e umana di quello che è stato chiamato il “Progetto Genoma”, vuole dare una definizione di “Progetto Genoma”?
Per definire il “Progetto Genoma”, bisogna definire il genoma. Il genoma è l’insieme dei geni di un essere qualunque, sia che sia un virus, sia che sia un uomo. Questo vuol significa che in alcuni casi il genoma sarà molto grande, contiene molti geni, come il nostro, che ne contiene forse centomila, mentre il virus ne ha uno molto piccolo, che può essere limitato magari a tre. Perciò “Progetto Genoma” fondamentalmente significa arrivare alla conoscenza completa dei nostri geni e dei geni di qualunque specie. Si cominciò a lavorare, sperimentalmente, a questo progetto verso l’ ’87, anzi forse il primo lavoro è stato cominciato qui in Italia, perché io ne sono diventato il coordinatore e avevamo cominciato subito. Ma, al giorno d’oggi, tutti i paesi avanzati della scienza partecipano a questo progetto. All’inizio in Italia il progetto è partito perché il professor Rossi-Bernardi, che era Presidente del C.N.R. a quel tempo – lui aveva partecipato ad un meeting a Washington, negli Stati Uniti, dove io avevo presentato questa idea – e a lui è parso interessante e quindi è stato lui, effettivamente, che ha promosso sia la mia partecipazione che l’inizio del progetto stesso.
2 .Esaminiamo ora attentamente gli aspetti scientifici del “Progetto Genoma”.
Questo progetto è molto complicato, perché bisogna andare a leggere il messaggio contenuto in questa lunghissima molecola di DNA, che contiene qualcosa come tre miliardi di lettere che sono effettivamente le basi del DNA, di cui ce ne sono quattro tipi. Perciò abbiamo a che fare con un linguaggio di sole quattro lettere. Malgrado questo, il linguaggio è molto complicato. Per leggere questo linguaggio, si deve operare in due fasi. La prima fase è quella di stabilire dei punti di riferimento sopra questa stringa di DNA, che è molto, molto lunga, e questo è quello che si chiama la “mappa”. Ci sono due tipi di mappe. In fondo le mappe corrispondono più o meno a quello che noi pensiamo essere la mappa di una strada: abbiamo una linea su cui si trovano dei punti di riferimento, perciò questa è la mappa. La linea è il DNA. Allora quali sono i punti di riferimento? Abbiamo di due tipi di punti di riferimento, per cui si parla di mappa genetica e mappa fisica. Nella mappa genetica i punti di riferimento sono delle caratteristiche del DNA che si possono inserire in quella che è la funzione genetica stessa del DNA. Queste caratteristiche del DNA sono dei punti dove la sequenza, l’ordine delle basi differisce molto da un individuo all’altro. In generale, nel DNA ci sono poche differenze tra gli individui ma in questi punti le differenze sono forti. Anche se prendiamo anche due fratelli, è probabile che essi differiscano in quel particolare punto. Questa è la cosa importante. Si va a cercare un mucchio di questi “polimorfismi”, come vengono chiamati, e ciascuno di questi viene inserito in una sequenza che lo rende riconoscibile, per cui noi possiamo dire: polimorfismo numero uno, numero due, numero tre, e abbiamo la possibilità di identificarli. Questi polimorfismi li conosciamo individualmente e conosciamo anche la distanza tra di loro, che è espressa però come distanza in termine di “unità di ricombinazione” cioè di scambio. Se abbiamo un pezzo di DNA, un cromosoma, e abbiamo due di questi polimorfismi, se essi sono molto vicini, la possibilità di scambio è molto piccola, se sono molto lontani, invece, la possibilità di scambio è molto maggiore. Se questi si possono misurare allora abbiamo la distanza tra questi polimorfismi. Pertanto è questa la “mappa genetica”. Si chiama genetica perché è basata sulla stessa metodologia di misura delle distanze su cui la genetica è basata tradizionalmente, cioè la ricombinazione. Invece la mappa fisica è, come dice la parola, risultata da un mucchio di frammenti del DNA, cioè pezzetti veramente fisici, che sono fatti in maniera tale che siano parzialmente sovrapponibili. La sovrapposizione è necessaria, perché questo permette di metterli in ordine, perché quando essi vengono dal DNA non si sa da dove vengano, ma se si sovrappongono, vuol dire che sono contigui, cioè che hanno qualche cosa in comune. Con questo metodo è possibile orientare un gran numero di frammenti in una mappa continua. Questa è la “mappa fisica”, perché la distanza di due punti su questa mappa è data dall’ordine del numero delle basi del DNA, perciò è una quantità fisica. Le due mappe si possono portare in sincronia, diciamo, perché è possibile prendere, per esempio, uno dei polimorfismi della mappa genetica e localizzarlo sulla mappa fisica, in modo da dare congruenza alle due mappe.
- Come è stato possibile, professore, giungere a identificare queste due mappe?
Questo è un lavoro che deriva dalla conoscenza dell’ingegneria genetica, di cui già si sapeva molto, quando il progetto è cominciato. Per esempio, i polimorfismi si conoscevano già perché ci sono degli enzimi, che tagliano il DNA quando ci son delle sequenze ben determinate, per cui, dato un pezzo di DNA, lo tagliano generalmente in un numero caratteristico di pezzi, con lunghezza diversa, ma in numero costante, e ciascun pezzo è sempre lo stesso in DNA diversi. Però, alcune volte, ci sono delle differenze nei punti dove l’enzima taglia. Allora, se ci sono differenze in uno di questi punti, quel DNA lì non sarà più tagliato, e allora, invece di fare due pezzi piccoli, ne fa uno grande. Perciò questi sono i primi polimorfismi. Quelli che si adoperano adesso sono diversi, sono risultati dallo studio del DNA che ha dimostrato che ci sono delle zone, dove ci sono delle ripetizioni di basi, che sono piccoli gruppi di basi, spesso due, per esempio CA; in questo caso sarebbe CA, CA, CA, e questo CA viene ripetuto un numero di volte, che può variare, a secondo dei posti, da dieci a cento e dunque c’è grande variabilità. Per la natura stessa di queste sequenze, esse facilmente vanno incontro a variazioni di numero, che naturalmente non è che siano continue, perché altrimenti non avrebbero nessun significato, ma sono abbastanza frequenti, per cui in una popolazione, anche in una famiglia, due persone, anche parenti, fratelli, si possono avere delle differenze. Si adopera questo come punto di riferimento, perché ci vogliono dei polimorfismi che siano disuguali con frequenza alta, poiché, altrimenti, non potrebbero essere utilizzati. Voglio spiegare perché ci sono necessari questi polimorfismi. Per la ricerca dei geni, uno dei metodi tradizionali è lo studio di famiglie dove c’è una malattia ereditaria. In questa famiglia, generalmente, ci sono delle persone che sono affette dalla malattia ed altre che non lo sono. Quello che si fa è andare a studiare il DNA di queste persone, cercando di identificare qualche particolarità del DNA con la presenza o meno della malattia. Per cui bisogna avere un gran numero di polimorfismi, perché se ne avessimo solo pochi, la possibilità di trovarne uno associato alla presenza della malattia, sarebbe minimo. Questo è rapportato ad uno sforzo, specialmente in un laboratorio di Parigi, teso all’identificazione di un grande numero di questi polimorfismi, che vengono chiamati microsatelliti per ragioni, diciamo, storiche. Adesso se ne conoscono, mi pare, nell’ultimo numero che ho letto, qualcosa come 5.300. Vede, con cinquemila, o, se fossero seimila, essendo cinque miliardi le basi, vuol dire che in media la distanza fra due polimorfismi è cinquecentomila basi. Questo sembra un gran numero, ma in effetti per il lavoro che si deve fare è un numero già possibile.
4. Ricostruiamo però la vicenda del “Progetto Genoma” prima dell”85. Arriviamo all’antefatto e soprattutto arriviamo alle ricerche che Lei ha condotto precedentemente e a quelle scoperte scientifiche, a cui Lei era giunto, grazie alle quali poi conseguì anche il premio Nobel.
Se vogliamo vedere la connessione diretta, bisognerebbe riferirsi a un articolo, che è stato il primo articolo scritto su questo argomento, che io ho pubblicato nel 1986 su di una rivista americana. In questo articolo io partivo dal mio lavoro, dalla mia esperienza, nella ricerca sul cancro. Dicevo: si vede che le cellule del cancro hanno delle diversità genetiche molto importanti rispetto alle cellule normali, però non sappiamo quali siano. La ragione per cui non sappiamo quali siano è perché non conosciamo niente dei nostri geni; e cercare di scoprire le differenze genetiche tra cellule di cui non si sa niente non è possibile. Se vogliamo arrivare a quel punto lì, che sarebbe un punto molto importante per una ricerca sul cancro, bisogna che cominciamo a studiare, in maniera molto sistematica, i nostri geni. Perciò vede, io sono arrivato a questo punto a partire dalla mia ricerca precedente, che è una ricerca sul cancro. In fondo io credo che nella vita di uno scienziato ci sono sempre dei punti di attacco, perché direi che di scienziati ce ne so due tipi. Ci son quelli che partono con un certo argomento e continuano sempre nello stesso argomento, arricchendolo naturalmente sempre. Ce ne sono altri invece che sembrano saltare da un argomento all’altro, ma, invece, se si va a vedere, è vero che saltano, ma la continuità c’è sempre. Ed è lo stesso in questo caso. Vede, di salti io ne ho fatti parecchi, perché ho cominciato quand’ero all’Università di Torino, studiando culture di tessuti. Poi sono andato negli Stati Uniti, ho studiato i virus dei batteri, i “batteriofagi”. Lì non c’era nessuna connessione, era semplicemente che in un ambiente si studiava una cosa, nell’altro si studiava l’altra? Però dai virus, dai batteri io sono rapidamente passato ai virus degli organismi superiori, dell’uomo, di certi animali. Questo lo potevo fare, perché lì veniva fuori il mio passato, con le culture dei tessuti, perché allora c’era bisogno della cultura dei tessuti. Così si vede la mia duplice esperienza: culture e virus, si abbinavano sui virus che crescono nelle culture. Dopo sono passato al cancro. Di nuovo, perché? Perché il cancro, in quel momento lì specialmente, si studiava specialmente bene in cultura. C’erano dei virus, che producono cancro negli animali. Io e pochi altri, abbiamo adottato questo sistema delle culture per poterlo studiare bene. E’ stato necessario perché diversamente sarebbe stato impossibile. Da lì, come entrano i geni? I geni entrano perché questi virus, da principio, si studiavano come agenti che producono il cancro, ma come processo nessuno ne aveva la più lontana idea. Allora, io pensavo che, se questo virus, che è piccolo, che ha pochi geni, se può provocare il cancro, vuol dire che ha qualche cosa nei suoi geni che può favorire o provocare cancro. Così ci siamo messi a studiare i geni di questi virus e da lì è venuta fuori la connessione tra i geni e il “Progetto Genoma”.
5. Fermiamoci un momento su queste ricerche che Lei appunto conduceva, come ci ricordava, sul cancro degli animali. Qual è il meccanismo, sotto il profilo scientifico, che Lei scoprì, che poi appunto come ci ha raccontato, Le aprì la strada all’intuizione verso il “Progetto Genoma”? Quale meccanismo riuscì a svelare?
Questa idea che i geni potessero essere coinvolti nel cancro non esisteva a quell’epoca. Io ho pensato di mettermi a studiare un virus piccolo, che provocava il cancro nei topi. Abbiamo adattato questo virus a delle culture, in maniera che queste culture venivano trasformate, venivano cambiate. Se si prendevano queste cellule cambiate e se si mettevano nell’animale esse crescevano formando un tumore. Dunque, avevamo lì il metodo sperimentale adatto. Poi ci siamo messi a studiare. Insomma si vedeva, con questi virus , che esso entrava nella cellula, la cellula veniva alterata e sembrava che il virus sparisse, che non ci fosse più, non c’era più traccia di questo virus. Per cui, non si sapeva più cosa succedesse. Allora ho pensato: c’è un collegamento alla mia esperienza precedente con questi batteriofagi; c’è uno dei batteriofagi che fa qualcosa di simile nei batteri. Il batteriofago naturalmente è una cosa che si studia molto bene ed era già conosciuto molto di più; in questo batteriofago si era già visto che la ragione per cui il batteriofago entrava nella cellula e poi spariva, era data dal fatto che i geni del batteriofago si inserivano tra i geni della cellula e stavano lì, latenti, finché qualche cosa succedeva e li riattivava. L’idea era questa. Dicevo: probabilmente è un fenomeno simile, andiamo a studiare i geni del virus nella cellula. Lì risiedeva la maggiore difficoltà da superare perché la biologia molecolare nelle cellule umane e di animali, non esisteva ancora. Bisognava crearla. E l’abbiamo creata. Ci siamo messi a studiare e, forse, le scoperte fondamentali sono state due. Una è che, quando il DNA del virus entra nella cellula, quello si va a inserire tra i geni del virus, tra i geni della cellula. Allora la cellula apparentemente non ce l’ha più dentro il virus, ma invece ce l’ha. Ed è certo che il virus ha un’azione molto più limitata. Non si moltiplica, ma fa la sua azione cambiando la cellula. L’altra cosa importante è stata dimostrare che questa proprietà era una proprietà inerente a certi geni del virus, non a tutto il virus, ma a certi geni del virus. Per cui si è potuto connettere, uno a uno, questa proprietà a un’alterazione cancerosa e all’azione di questi geni. Perciò questa in fondo è stata la scoperta fondamentale. L’animale ci ha offerto il metodo per studiare il processo del cancro, ma noi l’ abbiamo trasferito alle culture, perché, se avessimo avuto solo gli animali non avremmo potuto far niente. Vede, quando si mette il virus nell’animale, esso infetta certe cellule, ma non altre. Le cellule infette sono poche, non si potrebbe fare nulla. Invece, quando si lavora con queste colture si possono infettare tutte le cellule, in modo che siano tutte uniformemente infettate e che rispondano in modo uniforme. Allora si possono fare gli esperimenti.
Il “Progetto Genoma”, interessa tutta la vita, perché tutti gli esseri viventi hanno un genoma. Difatti, al giorno d’oggi, ci sono degli esseri viventi su cui il lavoro è concentrato più che in altri: l’uomo naturalmente, il topo, certi moscerini della frutta, la drosofila, che è stata tradizionalmente usata per lo studio della genetica già da molti anni, il lievito, certi batteri, certi virus. Nelle piante, specialmente l’ “araba idopsis italiana”, che è usata perché è una pianta che si riproduce abbastanza in fretta, molto usata per lavoro sperimentale; poi ce ne sono anche altri: il riso, per ragioni agricole, e perciò c’è un gran numero di oggetti di questa ricerca. A lume di ragione si può anche vedere il fatto che i geni, sebbene in organismi così diversi, non sono poi molto diversi, perché, in fondo, l’evoluzione di tutti gli organismi viventi parte da un punto comune e poi da lì si dirama, si arricchisce continuamente; ma i geni che erano presenti negli organismi più semplici, sono ancora presenti in quelli più complessi. Mi si faceva un esempio, diciamo molto bello: i geni che regolano la moltiplicazione delle cellule nel nostro corpo sono quasi esattamente gli stessi che regolano la moltiplicazione nel lievito. Dunque, vede: da un organismo unicellulare a un organismo complesso come il nostro, i geni si sono conservati.
6. Una volta giunti a questa scoperta, che, come Lei sottolineava, è stata di grande rilevanza, come si è giunti – ricostruiamo il percorso scientifico – all’elaborazione del discorso “Progetto Genoma”?
Da quel lavoro lì è venuto fuori un allargamento enorme delle vedute e della possibilità di sperimentazione. Estendendo quella che era una biologia ristretta, diciamo, ai batteri e a certi virus, estendendola anche alle cellule animali. Per cui moltissimi problemi, che prima non erano attaccabili, diventavano attaccabili. Infatti, per dare una prova di questo, far vedere quale fosse l’impatto di questo cambiamento, io posso ricordare che tra le persone che hanno lavorato con me, ci sono quattro premi Nobel e uno era un mio studente quando io cominciavo questo lavoro ma purtroppo è morto. L’altro è David Baltimore che lavora ancora adesso. Scienziato bravissimo, anche lui nel periodo iniziale. Poi dopo queste scoperte ne sono venuti altri due, uno era Tonegawa, che è “RMT” negli Stati Uniti, che ha usato le tecniche che io avevo cominciato a sviluppare per far capire come funziona il sistema immunitario – una cosa molto importante -, l’altro è Paul Borg. Paul Borg è stato l’iniziatore dell’ingegneria genetica e lui lavorava nel mio laboratorio quando ha fatto questa scoperta. Perciò, vede, abbiamo detto: abbiamo lavorato coi batteri, coi virus abbastanza, adesso occupiamoci dei geni dell’uomo, delle cellule umane, animali, eccetera, perché è lì che ci sono i veri problemi. E qui allora si vede il passaggio al genoma, perché quello è la generalizzazione, diciamo, di questo tipo di direzione.
7. Vediamo innanzi tutto quali sono stati i risultati raggiunti fino ad ora e poi diamo uno sguardo a quello che sarà lo scenario futuro del “Progetto Genoma”.
Abbiamo parlato di mappe. Quello che è successo è che, come Le ho detto, la “mappa genetica” è completa. La “mappa fisica”, che consiste in una serie di filamenti, o frammenti, questa è, direi, al 75% completa, che è una cosa già molto notevole. Perciò il progresso in questo campo è stato veramente straordinario. Io non credo che in partenza le aspettative fossero così ottimistiche. I fatti hanno superato il nostro ottimismo. Quello che rimane da fare, che è veramente la parte principale, perché le mappe ci danno l’infrastruttura, è che noi vogliamo i geni. Per trovare i geni, abbiamo bisogno di questa infrastruttura. Il lavoro adesso fondamentalmente si concentra sulla scoperta dei geni e sulla caratterizzazione delle loro funzioni. La scoperta dei geni va avanti in modi diversi. Ho già parlato brevemente della scoperta, usando le famiglie e cercando di correlare il fenotipo della malattia genetica con i polimorfismi. Questo è molto importante. Ci sono dei mezzi molto più diretti, perché al giorno d’oggi, per esempio – questo è stato un altro grande contributo, un altro grande successo di questo progetto – si sono isolati. Quelli si chiamano i “messaggeri”. I “messaggeri” vuol dire questo: che il gene, quando funziona, all’ultimo deve ordinare alla cellula di fare una proteina. Le proteine sono le molecole che fanno tutto nel nostro corpo. I geni sono le informazioni per le proteine. Per fare questo, il gene costruisce una molecola intermedia che si chiama il “messaggero”. Questo “messaggero” è fatto di RNA, invece che di DNA. L’RNA è molto simile, insomma il linguaggio è lo stesso. Però questo “messaggero” si muove dal nucleo della cellula al citoplasma. Allora è possibile isolare questo “messaggero” completamente e indipendentemente dal DNA. Ogni “messaggero” rappresenta un gene, per cui se si prendono “messaggeri” diversi si ha la descrizione, diciamo così, di geni diversi. Questo è stato fatto negli Stati Uniti, specialmente al giorno d’oggi, per moltissimi di questi frammenti, che in fondo non si isolano tutti ma solo, di ciascuno, un piccolo frammento. Di questi frammenti ce ne sono a disposizione più di centomila. Il bello è che tutti questi frammenti, le basi, la sequenza di base di ciascuno di questi frammenti, è in banche dati a cui ciascun ricercatore ha accesso. Siccome ognuno di questi frammenti corrisponde a un gene, allora un mezzo per scoprire i geni, è pescare su questi frammenti e andare a vedere a quale gene corrispondono. Questo è il processo che si sta facendo e molto, molto attivamente. Insomma ci sono altri vuoti, altri vuoti, basati sulla sequenza completa del DNA. Però questo è molto lento, molto complicato, molto difficile, anche perché il DNA umano ha solo il 3% del DNA di geni. Il resto non lo è. Allora, facendo una sequenza indiscriminata si ottengono un mucchio di cose che non hanno interesse. Però anche quello è servito. E’ possibile analizzarle in una sequenza e andare a vedere dove sono i geni, perlomeno con un’alta probabilità identificarli. Questi sono risultati molto notevoli e questa scoperta dei geni continua. Direi che, al giorno d’oggi, si scoprono probabilmente un migliaio di nuovi geni all’anno. Di geni ce ne sono centomila. Questo vorrebbe dire: ci vogliono cento anni? No, non ci vogliono cento anni, perché, man mano che il lavoro procede, diventa sempre più facile. Questo è per la struttura stessa dei geni. Perché molti geni hanno qualche cosa in comune. Se se ne scopre uno, da questo se ne va a raggiungere dieci, venti, trenta, perché ci sono famiglie che hanno delle somiglianze in modo che è possibile passare dall’uno all’altro. Per cui io penso che in una diecina d’anni la gran maggioranza dei geni sarà scoperta.
Diverse difficoltà scientifiche, oltre al dato oggettivo, quello temporale, si frappongono alla realizzazione definitiva del progetto: difficoltà scientifiche che sono difficoltà tecnologiche. Per esempio, per determinare l’ordine delle basi, che, insomma, in ogni caso, deve esser fatto, anche se non viene fatto su larga scala. Questa determinazione è tecnologicamente complessa e ci vuole parecchio tempo. Per fare un esempio: un ricercatore, che lavori a tempo pieno, può determinare forse mille basi al giorno. Se si pensa che ci sono tre miliardi di basi ci vorrebbero tre milioni di giorni a farlo così, se si dovesse far tutto. Insomma è evidente che questo è un campo in cui bisogna migliorare la tecnologia e già ci sono molte persone interessate a migliorarla e io penso che si avranno certo dei risultati importanti. Uno degli aspetti di questa tecnologia è che ci sono sempre molte, molte operazioni da fare e queste operazioni sono sempre le stesse, ripetitive. Per cui si è già sviluppato un certo grado di automazione, ma ce ne vorrà ancora di più per potere raggiungere una velocità adeguata per arrivare a risultati. Perciò direi che le difficoltà maggiori che io vedo, sono di questo tipo: non credo che ci siano difficoltà concettuali. Ci sono dei punti del DNA che son difficili da studiare, per ragioni che non si conoscono bene, ma penso che man mano che si capisce di più del DNA, della sua organizzazione, anche questi cederanno e sarà possibile andare avanti. Direi che queste sono le difficoltà scientifiche.
8 . Le forze in campo di questo progetto – Lei diceva prima, che in qualche modo è un progetto, uno studio sulla vita – richiedono quindi l’intervento di medici, ma non soltanto, di biologi naturalmente, biologi molecolari, ma anche di matematici e di fisici. Quindi un progetto che ingloba, che chiama all’appello le discipline scientifiche tutte insieme?
Sì. Vede, per esempio, i medici sono coinvolti perché, quando studiano le malattie ereditarie devono fare la diagnosi prima di tutto, e tante volte non è facile fare la diagnosi di una malattia ereditaria. Ci sono certe malattie che possono confondersi con altre. Questo è un punto. Poi la biologia molecolare, è direi, quella più sotto controllo. Quando si hanno le sequenze, bisogna analizzare le sequenze, e lì ci vuole la matematica, l’informatica; infatti questo è uno studio che è fatto da fisici e matematici, che possono farlo, perché è una cosa molto complessa. Anche i fisici sono importanti per fornire metodi di lavoro. Per esempio, ci sono dei metodi come la spettroscopia di massa, che è un metodo puramente scientifico, puramente fisico, che è molto importante per separare dei frammenti, per misurare le dimensioni del DNA, per stabilire la forma delle proteine, eccetera. I chimici devono contribuire, specialmente nello studio delle proteine, perché le proteine sono veramente, direi al girono d’oggi, l’elemento chiave. La ragione è questa: quando c’è un’alterazione del DNA, questa alterazione si riflette sulla proteina; e se c’è una malattia, dovuta ad un gene che non funziona, questa malattia si presenta perché un certo tipo di proteina non funziona. Le proteine sono complicate perché sono filamenti. Il DNA è un filamento e la proteina è un filamento, fatto con pezzi diversi, che però, se fosse solo un filamento, non avrebbe nessuna funzione; per avere funzione deve aggomitolarsi in maniera tale che, se ci sono punti diversi che nel filamento sono molto lontani, ma nella proteina sono molto vicini, allora questi collaborano e lavorano insieme. Dunque lì c’è molto lavoro da fare, che sarà fatto da fisici, da chimici, da persone coinvolte nei metodi della determinazione delle strutture. Questo credo che sia una cosa molto importante, perché le possibilità di terapia del futuro dipenderanno molto dalla conoscenza e dalla comprensione del funzionamento delle proteine.
9.Quali sono le finalità del “Progetto Genoma”, quali le implicazioni e quali anche le applicazioni, quelle già, in qualche modo conseguite e quelle invece che si andranno a conseguire con il tempo?
Prima di tutto c’è il problema di conoscenza; se vogliamo conoscere noi stessi, come il filosofo greco ci raccomandava, al giorno d’oggi è chiaro quello che dobbiamo fare conoscendo i geni. Lei sa che ci sono già degli studi che dicono che anche il nostro comportamento è fortemente influenzato dai geni. Perciò noi non siamo altro che l’espressione dei nostri geni. Come conoscenza dunque questa è una cosa di grandissimo valore, di grandissima importanza. Poi si passa alle possibili applicazioni, per esempio alla medicina. Nella medicina ci sono le malattie ereditarie. Alcune di queste, molte di queste, sono malattie terribili. Quando un bambino nasce con una malattia ereditaria, il più delle volte nessuno lo aveva previsto. Questo bambino nasce così. Perché? Perché per caso due geni cattivi, che erano presenti l’uno nel padre, l’altro nella madre, si sono messi insieme e hanno prodotto la malattia. Allora si pensa: ma se conosciamo i geni perché non possiamo evitare la malattia, prevenirla, facendo la diagnosi di questi geni alterati in persone normali? Questo è un progetto di grande importanza. Al giorno d’oggi, noi pensiamo che non è possibile farlo su tutti, perché il progetto è troppo grande, nessun paese se lo potrebbe permettere semplicemente perché ognuno di noi contiene quattro o cinque o sei geni, che sono di questo tipo. Perciò bisognerebbe analizzare i geni di tutti gli individui. Impossibile. Ma invece questo si può fare per gruppi o persone che sono a rischio. E quali sono queste? Sono di due tipi: uno, sono i parenti di una persona, che ha già la malattia ereditaria. Questo vuol dire che quel particolare gene era presente e, insomma, si può perciò puntare a quel particolare gene. L’altro sono dei gruppi in cui certe malattie ereditarie sono molto frequenti. Ce ne sono due di questi, bene identificati: un gruppo è quello delle popolazioni mediterranee, dove la “talassemia” è frequente – è il caso della Sardegna. Allora lì è possibile andare a vedere quando un bambino nasce, o anche prima che nasca, se ha il gene della “talassemia” o tutte e due i geni; l’altro gruppo è quello della popolazione degli ebrei askenazi, che hanno la cosiddetta “malattia di Tay-Sachs”, una malattia del sistema nervoso, terribile. Adesso in queste due popolazioni, si va alla ricerca di individui che hanno i geni, ma sono normali, cosiddetti “portatori sani”, in modo che se due persone sanno di essere portatori dello stesso gene, cercheranno di non aver figli, o, se devono aver figli, faranno l’analisi del prodotto del concepimento, per vedere se hanno la malattia oppure no. Si sono già avuti risultati molto importanti, perché, sia nella talassemia, che nella “Tay-Sachs”, fino a vent’anni fa, il numero di persone che nascevano con questa malattia era mutevole, mentre invece adesso si è ridotta forse al 2% rispetto all’origine. Un’enorme quantità di sofferenza umana è stata eliminata. Questo grazie alla prevenzione. La prevenzione oggi non si limita alla diagnosi nel portatore, ma si può fare la diagnosi anche nell’embrione. E si può fare a molti livelli, perché per esempio, una delle tecniche che è stata proposta, e che è stata attuata su scala molto piccola, perché ancora molto complessa, è quella – qualora due persone siano portatori dello stesso gene e vogliano avere un figlio – di fare la fecondazione “in vitro”. Con la fecondazione “in vitro” si prendono le cellule-uovo dalla madre e lo spermatozoo dal padre, si mescolano insieme nella provetta, si formano degli embrioni molto primitivi che partono da una cellula, poi due, quattro, otto; quando raggiungono il livello di otto cellule, è possibile prelevare una cellula da questi embrioni, ed esaminarla, perché le tecnologie che abbiamo sono il risultato di queste ricerche fatte, fondamentalmente, nell’ambito del “Progetto Genoma” e ci permettono di identificare un gene ammalato in una sola cellula. Allora, siccome il gene si conosce qualora c’è il gene ammalato, questo embrione non sarà messo nell’utero della madre, sarà distrutto, se invece il gene è normale, allora viene immesso. Allora in questo modo due persone che hanno un rischio del 25% di avere un figlio con una malattia terribile, possono, invece, con tutta tranquillità, avere un figlio normale. Come dicevo, questa tecnica è stata usata solo in alcuni casi, specialmente in Inghilterra, laddove c’erano parenti con “fibrosi cistica”, una malattia molto, molto grave. Forse una ventina di bambini sono stati formati in questo modo e tutti sono normali. Più avanti, nella gravidanza, c’è la diagnosi prenatale. Si prendono dei campioni dal feto, o meglio, non dal feto stesso, ma dalle membrane che lo circondano, dunque senza danneggiare minimamente il feto si fa l’analisi in queste cellule. Si può vedere se il feto ha la malattia o no. Lì naturalmente l’unica cosa da fare, se uno vuole evitare la malattia, è l’aborto. Ma questi, insomma, sono problemi etici, sociali, inevitabili; ma si può offrire la possibilità di evitare la nascita di un bambino con una grave malattia. Molte volte si vede già alla nascita se c’è una malattia genetica ma ci sono dei casi in cui questo non si vede. Per esempio c’è una malattia, la “corea di Huntington”, che è una malattia del sistema nervoso centrale, molto rara, per fortuna ma progressiva, terribile, che comincia verso i quarant’anni o anche un po’ oltre. La diagnosi si può fare in qualunque momento. Se un bambino nasce da genitori, uno dei quali ha la malattia, allora si può andare a vedere se il bimbo è fortunato o disgraziato. Quello che si può fare in questo caso non è molto, perché ormai l’individuo è nato, ma, per lo meno, questo individuo avrà la possibilità, quando cresce, di aggiustare la propria vita al proprio destino. Invece di vivere nell’interrogativo “cosa sarà di me”, sapendolo, potrà adattarsi.
10. Il “Progetto Genoma” ha conseguito dei risultati importanti soprattutto per quello che riguarda la diagnosi prenatale, ma non solo. La terapia genica è un altro campo estremamente importante.
La terapia genica è la terapia possibile quando una persona nasce e ha una malattia genetica. In fondo, una persona in queste condizioni ha due alternative. In certi casi non c’è bisogno della terapia genica perché è possibile sopperire alla deficienza del gene in modo artificiale. Un esempio di questo sarebbe l’ “emofilia” in cui, mancando le proteine per la coagulazione del sangue, l’individuo può dissanguarsi facilmente. Queste proteine gli vengono somministrate. Al giorno d’oggi, avendo isolato il gene, questo si fa in sistemi artificiali. La proteina viene fatta, per cui non c’è pericolo di infezioni da un individuo all’altro, come accadeva nel passato, quando bisognava isolare queste proteine dal sangue di donatori. Questi sono pochi casi, in generale, di quello che sembrerebbe la terapia più generale, la terapia genica. Che significa introdurre nelle cellule che sono menomate dalla deficienza del gene, una copia del gene normale. Questo in linea di principio è un indirizzo molto buono, è un indirizzo che si può dimostrare essere molto efficace in sistemi sperimentali, in cellule in cultura. Non c’è dubbio che è possibile compensare quasi tutti i casi per la deficienza di un gene, con l’introduzione del gene normale. Quando però si fa nell’ammalato, la cosa diventa molto diversa. Prima di tutto bisogna sapere quali sono le cellule in cui il gene opera nell’ammalato. Un gene malato opera generalmente in un ristretto numero di cellule. Per esempio c’è una malattia ereditaria, che colpisce cellule del cervello. Come facciamo a introdurre il gene nelle cellule del cervello? Questo finora non è stato possibile. Ma d’altra parte ci sono delle altre malattie che provocano immunodeficienza nei bambini, che muoiono se non sono curati, che muoiono per infezioni entro pochi mesi di vita; in questo caso, le cellule di cui hanno bisogno sono cellule del sangue. Allora lì è possibile prendere le cellule del sangue, immettere il gene normale in queste cellule e reimmettere le cellule nell’ organismo. In questo caso è stato provato che questa tecnica funziona. Ci sono quattro bambini, finora, in tutto il mondo che sono stati curati in questo modo e sopravvivono bene e non hanno problemi. Speriamo che tutto continui bene. Ci sono stati altri tentativi. Molti tentativi in corso per la “fibrosi cistica”, la “malattia di Duchenne”, che è una distrofia muscolare, l’ “emofilia”, di cui abbiamo parlato prima, e molte altre, in cui si cerca per vedere se è possibile ottenere dei risultati di questo tipo. Ci sono delle difficoltà notevoli. Una delle difficoltà maggiori è questa: nell’organismo i geni sono autoregolati, cioè un gene funziona solo quando ce n’è bisogno. Questo accade perché, se un gene funziona sempre, senza regolazione, questo eccesso di funzione può essere dannoso. Questa autoregolazione, finora, non è stato possibile ottenerla nella terapia genica. Noi sappiamo bene però che questo è uno dei problemi e si cerca di lavorare in quella direzione. Ci sono altri problemi, perché il gene non può essere immesso direttamente in queste cellule. Deve essere messo in un vettore, in qualche cosa che lo possa trasportare nelle cellule. Anche lì c’è scelta di molte possibilità. Ciascun vettore ha una funzione diversa, delle proprietà diverse, e si cerca di vedere qual’è quello che funziona meglio. Ci sono, insomma, un mucchio di problemi, un mucchio di interrogativi, alcuni risultati definiti, molti risultati e sistemi sperimentali, in animali. Perciò possibilità future, ce ne sono e si può essere ottimisti, ma non bisogna nascondersi le gravi difficoltà che ancora rimangono.
11.C’è poi un ulteriore campo di applicazione e di indagine del “Progetto Genoma”, che tra l’altro è uno dei campi di cui Lei si occupa con particolare attenzione. Si tratta del campo che ha a che fare con i tumori. Quali sono i risultati definitivi e quelli invece in via di definizione? Le chiedo una valutazione realistica: c’è la possibilità di una risoluzione scientifica del problema?
Noi sappiamo oggi che il cancro è una malattia dei geni e conosciamo già i meccanismi dei geni che portano al cancro. Magari non saranno tutti, ma certo ne conosciamo un buon numero, per cui capiamo molto bene come i geni portino al cancro. Quando il cancro si è formato, sotto l’azione di questi geni, il cancro è lì, e quello che bisognerà fare è combattere questo cancro dove ci sono molte alterazioni; e non sono solo i geni che hanno portato al cancro, ma molti altri fattori. Qui si ritorna alla vera ragione per cui avevo lanciato questo progetto. E questo rimane sempre un interrogativo. Al giorno d’oggi, già si studia per cercare di definire bene quali siano le alterazioni precise di molti geni nel cancro, perché l’idea è questa: se il cancro è dovuto al mancato funzionamento di un certo numero di geni, in aggiunta a questi, ce ne saranno molti altri, che sono anche alterati in funzionamento, ma non contribuiscono al cancro, perché, sa, se Lei scombussola tutto il sistema genetico, se Lei scombussola cento geni, due di questi sono quelli che provocano lo stato del cancro, gli altri novantotto sono anch’essi scombussolati, ma sono lì per caso. Bisogna arrivare a questo: identificare i geni cruciali. Ci sono già degli indizi interessanti direi, perché, per esempio, si vede che i geni che sono responsabili per proteine che tengono le cellule legate insieme all’organismo, sono molto importanti. Se queste proteine che tengono insieme non funzionano o se mancano, allora il cancro si sviluppa; ma se in queste cellule del cancro si immette questo gene, che permette alle cellule di riattaccarsi, esse perdono l’attributo canceroso. Questo naturalmente si fa in culture, in sistemi sperimentali; bisogna ora vedere se ciò è trasferibile al sistema del cancro umano. Ci sono perciò molte direzioni possibili. In fondo la terapia genica al momento, per cercare di migliorare l’estrazione del cancro umano, è fatta di molto lavoro sperimentale; i tentativi nell’uomo sono molto limitati perché si vedono ancora le difficoltà, ma si sta cominciando a procedere anche sull’uomo. Ci sono un certo numero di situazioni sperimentali, cliniche, per vedere cosa si può fare.
12. Un’ultima questione. Secondo Lei, esistono dei rischi reali, che possono derivare da una eventuale e completa mappatura dell’essere umano? Intendo dire: Lei prima faceva riferimento, per esempio, a un collegamento tra la genetica e il comportamento umano. Ora la mappatura è una definizione della identità teorica completa dell’uomo. Questa rischia di essere poi, sottoposta a eventuali manipolazioni?
Lì bisogna fare attenzione perché bisogna distinguere tra quelle che sono le possibilità, un po’ fantasiose, e quella che invece è la realtà, le possibilità reali. Questo che Lei mi sottopone, direi, è una possibilità fantasiosa. Le ragioni sono molte. Prima di tutto noi non conosciamo ancora i geni responsabili. Da quello che si sa possiamo inferire che ce ne saranno magari molti che collaborano nel determinare una certa caratteristica. Pertanto già conoscere diventa un problema, perché i nostri metodi sono molto buoni per identificare geni che lavorano da soli, che hanno una conseguenza diretta ma, quando ce ne sono parecchi che collaborano, diventa molto, molto difficile. Questa la difficoltà di identificare è una. Il giorno che siano noti, come sarà possibile intervenire, se già troviamo così difficile intervenire nel caso che ci sia un gene che non funziona bene? E’ concepibile arrivare a modificare dieci, venti geni, e specialmente, poi, i geni che operano nel cervello dove, naturalmente, tutte le possibilità di intervento sono molto, molto più basse. E’ per questo che credo che non bisogna pensare a questa possibilità. E’ una possibilità che bisogna magari tenere presente, con lo sviluppo delle conoscenze. Se le conoscenze vanno in quella direzione, bisogna tenerla presente sempre di più. Al giorno d’oggi, direi, non ha nessuna possibilità realistica. Quello che ha possibilità realistica, invece, sono difficoltà di altro tipo. Per esempio, le possibilità di discriminazione in due campi: uno è il campo dell’impiego, l’altro è il campo dell’assicurazione. Nel campo dell’impiego, ci sono degli impieghi che comportano esposizione a sostanze tossiche nelle industrie di vario tipo; qui si può dire che se si sa che uno ha un gene che lo rende esposto, diventa non impiegabile in questo tipo di industrie. Ma non bisogna esagerare perché ogni gene che rende una persona suscettibile, lo fa per una determinata sostanza, un piccolo gruppo di sostanze, non per altre. Così questa persona non sarebbe impiegabile in un tipo di industria, ma sarebbe impiegabile in molte altre industrie. C’è la possibilità ma non bisogna esagerare. Nel campo dell’assicurazione forse la situazione è più grave, perché, se le debolezze, diciamo, genetiche delle persone, fossero pubbliche e le Compagnie d’ Assicurazione le conoscessero, allora queste potrebbero determinare chi è assicurabile e chi non è assicurabile, sulla base di queste conoscenze. Questo è un problema reale e io penso che l’unica cosa è che ci debba essere una opportuna legislazione, una legislazione che, o tiene queste conoscenze segrete – voglio dire che questa non è nemmeno un’attitudine buona. Oppure direi che la legislazione deve impedire alla Società di Assicurazione di tener conto di queste caratteristiche individuali. Dopo tutto, se uno nasce con una menomazione genetica non ne ha nessuna colpa; è, diciamo, un’ingiustizia genetica, come io la chiamo, che capita, può capitare a qualunque persona. Siccome può capitare a qualunque persona, il suo peso deve essere suddiviso tra tutti. Questo si può fare appunto con l’Assicurazione, che non tiene conto di queste differenze, in maniera che se la persona poi muore presto, é menomata, eccetera, l’Assicurazione interviene e tutti pagano, non solo la persona. Insomma, adotterei un principio generale: che ci sia cioè una responsabilità pubblica per compensare le conseguenze della ingiustizia genetica.
Riferimenti bibliografici
Renato Dulbecco, Ingegneri della vita, CDE, Milano, 1988
Renato Dulbecco, Il progetto della vita, Mondadori, Milano, 1989
Renato Dulbecco, I geni e il nostro futuro, Sperling & Kupfer, Milano, 1995