Progetto filosofi – Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche
Il filosofo Gabriele Giannantoni, già professore dell’Università Sapienza di Roma, ci introduce al pensiero di Socrate (Atene, 470 a.C./469 a.C.– Atene, 399 a.C.), uno dei più grandi filosofi dell’antichità che ha influenzato tante correnti del pensiero filosofico moderno e contemporaneo. Qui di seguito, la trascrizione dell’intervista al professor Giannatoni.
Quali furono le cause che portarono Socrate davanti al tribunale, e poi alla condanna a morte?
Credo che per rispondere a questa domanda dobbiamo riandare alle vicende della vita di Socrate immediatamente anteriori. Socrate, nel decennio precedente al suo processo, si era trovato due volte in una situazione di conflitto profondo, la prima con il regime democratico, la seconda con il regime oligarchico dei Trenta Tiranni. Quando gli ateniesi vinsero la battaglia delle Arginuse nel 406 – l’ultimo successo che ebbero sugli spartani prima della sconfitta finale – i generali vincitori furono processati con il pretesto di non aver raccolto i naufraghi. Senofonte ci racconta dettagliatamente, nelle Elleniche, lo svolgimento del processo, ma quello che è interessante notare è che Socrate in quella occasione era uno dei pritàni, cioè uno dei membri del consiglio che aveva la funzione di governo esecutivo della città; e, dall’uso che fanno di certi termini Senofonte e Platone, si è indotti addirittura a pensare che nel giorno del processo Socrate fosse il presidente, l’§pistãthw (epistátes) dei pritàni, cioè il presidente della Repubblica. Queste cariche, infatti, erano sorteggiate di giorno in giorno, e quel giorno sarebbe capitato proprio a Socrate di essere capo dello Stato. Egli avrebbe adoperato la sua autorità per impedire che si facesse un processo sommario contro i generali vincitori, processo che sarebbe stato illegale, in quanto il diritto attico prevedeva solo processi individuali. In quella occasione si voleva derogare alla norma, e Socrate corse non pochi rischi opponendosi alla volontà dell’assemblea, e quindi al démos. Quella fu un’occasione di contrasto profondo tra Socrate e gli umori, per così dire, della democrazia ateniese. Altri contrasti – ce li narrano Platone e Senofonte – ci furono con il regime dei Trenta Tiranni. Quindi c’era qualche cosa nella personalità e nell’atteggiamento di Socrate che era in contrasto, diciamo pure, con le norme della vita politica, anche al di là del regime in cui concretamente quelle norme si incarnavano. Io credo che una delle ragioni, che certamente sono molte e complesse, che indussero la democrazia ateniese a processare e a condannare Socrate – badi bene proprio quella democrazia ateniese che era stata particolarmente tollerante verso i suoi avversari, che aveva promulgato un’amnistia molto ampia e che si proponeva un programma di pacificazione – fu il fatto di avvertire nel filosofo un fondo di estraneità, e quindi un pericolo imminente, di cui si pensò di liberarsi in quel modo. Naturalmente sul processo si è scritto e si è detto tutto, si è provato anche a giustificare in qualche modo la democrazia ateniese per aver condannato Socrate, ma io non credo che il problema sia quello di giustificare; il problema è di capire. Dopo di che, naturalmente, la responsabilità di aver condannato un uomo come Socrate rimane a chi ha preso una decisione di tale gravità.
Quali furono esattamente le accuse, e come tentò Socrate di difendersi?
Le accuse erano sostanzialmente due: la prima era la vera e propria accusa di empietà, la grafØ ésebe¤aw (graphè asebeías): “Socrate non riconosce gli dèi della città, e anzi introduce altre e nuove divinità”. La seconda accusa era quella di corrompere i giovani. Ora, per capire bene la prima accusa si deve tener presente che quando si parla di empietà o di ateismo nel mondo antico, se ne parla in modo sostanzialmente diverso rispetto ai nostri tempi, perché ateo per gli antichi non era tanto chi non credeva negli dèi, ma chi si rifiutava di compiere quegli atti di culto che facevano della religione una precisa funzione politica della città; dunque, derogare a quelle norme di culto era una trasgressione delle leggi paragonabile oggi, ad esempio, alla renitenza alla leva o alla disobbedienza alle leggi fiscali; si trattava di un reato di diritto pubblico. Socrate si difende da questa accusa negandola radicalmente: nessuno degli accusatori può provarla, perché lui non solo è stato sempre rispettoso del culto delle divinità, ma non può essere minimamente confuso con quegli atei che sono i filosofi naturalisti. Socrate, nell’Apologia di Platone, nega infatti di essersi mai occupato di queste questioni. Quindi la preoccupazione fondamentale di Socrate nel processo, a quello che ci dice Platone, è stata quella di non essere identificato con gli atei naturalisti. Dalla seconda accusa, cioè quella di corrompere i giovani, che derivava necessariamente dalla prima – perché è evidente che un’educazione all’ateismo era un’educazione corrompitrice dei giovani – Socrate si difende chiamando a testimoni gli stessi Ateniesi. Lui è sempre vissuto in pubblico, ha sempre frequentato le palestre, i giardini, non ha mai insegnato a qualcuno in privato, e lì al processo sono presenti tanto i suoi giovani uditori quanto quelli più anziani, i loro genitori; Socrate li invita a testimoniare se mai ha insegnato a loro qualcosa che può essere considerato fonte di corruzione. E, naturalmente, egli riesce a dimostrare il suo punto di vista; però dobbiamo anche tener conto che l’accusa di corrompere i giovani rivelava un retroscena politico che, implicito durante il processo, si rivelò chiaramente subito dopo la morte di Socrate. Socrate era stato il maestro e l’educatore di Crizia e di Alcibiade, cioè di due delle figure più criticate ed esecrate nella Atene della democrazia restaurata dopo il regime dei trenta tiranni. Crizia era il capo dei Trenta Tiranni. Alcibiade era colui che per non sottomettersi al processo aveva tradito Atene ed era passato a Sparta, combattendo contro la propria patria. Socrate era stato in rapporti sia con Crizia sia con Alcibiade, e questo non gli fu perdonato: questa è la vera sostanza che sta dietro l’accusa di corrompere i giovani.
Socrate corrompeva i giovani, secondo alcune testimonianze, tra cui quelle che lo portarono alla condanna a morte, anche perché insegnava a rendere più forte la ragione più debole: quindi, per i suoi accusatori, come pure per Aristofane, in un certo senso Socrate sarebbe stato un sofista. Esiste invece una chiara differenza tra Socrate e i sofisti, che egli anzi combatteva. Qual è questa differenza?
Intanto, tra Socrate e i sofisti esiste un’affinità, nel senso che, per esprimerci schematicamente, sia l’uno che gli altri partivano da un modo di affrontare i problemi che è un modo, come si suol dire con un termine un po’ tecnico, soggettivistico; cioè il criterio di verità è l’uomo, e non sono le cose. La differenza tra Socrate e i sofisti sta nel fatto che, mentre per i sofisti il criterio è l’opinione individuale – questa è la tesi di Protagora: “vero è ciò che tale sembra a ciascuno” -, Socrate cercava di andare oltre questo relativismo e questo individualismo, cercando di scoprire, di fare emergere dalle varie opinioni, dalle varie scelte, dai punti di vista, un consenso, un accordo, una _molog¤a (homologhía), dicevano i greci antichi, che costituisse qualche cosa di più stabile, e quindi più vero e più certo, che non le semplici opinioni individuali. Socrate dalla tradizione è considerato discepolo di Prodico, un sofista celebre perché si divertiva a definire esattamente i diversi significati dei sinonimi; per lui coraggio vuol dire questo, temerarietà vuol dire questo, spavalderia vuol dire quest’altro, ed egli riteneva che la definizione esatta di questi termini fosse importante per esprimersi in modo appropriato e per convincere gli uditori. Le domande di Prodico ricordano il clima dei dialoghi di Platone, dove si chiede “che cos’è il coraggio?”, spiegando che esso consiste nel resistere di fronte ai nemici, “che cos’è la temerarietà?”, affermando che temerarietà è andare in modo sprovveduto contro i nemici, e così via. Chiedendo per ogni termine: “Che cos’è?”, Prodico cercava la definizione. Anche Socrate domanda “che cos’è il coraggio?”, ma la sua domanda è una cosa radicalmente diversa, vuol dire: “tu che stai parlando con me che cosa intendi dire quando io ti chiedo che cos’è il coraggio?”; Socrate non chiede che cos’è il coraggio in generale, ma chiede: “che cosa tu dici che sia il coraggio?”, perché se noi due stiamo parlando, siamo noi due che dobbiamo metterci d’accordo sul significato da dare al termine coraggio. Quindi, la definizione del coraggio non è il punto di arrivo della discussione, ma è il suo punto di partenza, perché di fronte alla definizione data dall’interlocutore comincia l’¶legxow (élenchos), la confutazione socratica. Quindi si può capire come gli ateniesi confondessero Socrate con i sofisti, e si può capire lo sforzo che è costato a Platone mostrare la sua contrapposizione ad essi; ma resta indubbio che, indipendentemente dal fatto che questa contrapposizione sia storicamente attribuibile a Socrate, il quadro della dottrina socratica offertoci da Platone è teoricamente molto importante e molto preciso.
Nel ricostruire il mosaico della figura e dell’opera di Socrate, si ricorre a tante tessere che sono offerte da Aristofane, da Senofonte, da Platone, da Aristotele. Tutto questo perché Socrate non ha scritto niente, e non c’è neppure un rigo di suo pugno. Ma perché questa ostinazione nel non voler scrivere niente da parte di Socrate?
Questa è una domanda a cui è veramente difficile rispondere; conosciamo la risposta di Platone, ma non sappiamo se corrisponda realmente a quella di Socrate. Platone, soprattutto in un celebre passo del Fedro , teorizza la superiorità del discorso parlato rispetto al discorso scritto, perché, mentre il discorso scritto – egli dice con una immagine famosa – è come il gong che percosso restituisce sempre lo stesso suono, il discorso parlato, invece, si modifica a seconda del modo in cui si sviluppa la discussione tra i due interlocutori; quindi non è più soltanto maieutico – diremmo socraticamente -, cioè in grado di far venir fuori meglio la verità, ma ha anche un valore filosofico più profondo del discorso scritto. Naturalmente in questo atteggiamento di Platone c’è una ragione filosofica, che è quella che ho detto; ma vi troviamo anche una ragione politica, perché esprime un atteggiamento di ostilità della cultura aristocratica, di cui Platone bene o male faceva parte, verso il diffondersi della scrittura. Oggi è un tema molto discusso tra gli studiosi quello del rapporto tra oralità e scrittura e del passaggio dalla cultura orale alla cultura scritta; certamente l’età di Socrate e di Platone è quella in cui la scrittura trionfa, e prelude poi ad una cultura tipicamente libresca come quella dell’età ellenistica. Voglio comunque ribadire che queste sono le motivazioni di Platone: se nell’enunciarle egli sia stato un fedele interprete di Socrate, è impossibile dirlo. Certo è che Socrate è presentato da Platone, ma altresì dagli altri socratici, anche da Senofonte, come il filosofo del dialogo; egli elabora e sviluppa le sue riflessioni essenzialmente sulla base del confronto e del colloquio con un altro interlocutore; non con se stesso, non riflettendo fra se stesso, ma riflettendo con altri: ecco il senso in cui, potremmo dire, Socrate è il filosofo del dialogo.
Nel suo essere filosofo del dialogo, nel suo ricercare la verità in comune con altri, Socrate come sceglieva i suoi interlocutori? E che ruolo svolgeva il dubbio nel dialogare di Socrate?
Chi ci parla di Socrate ce ne parla sempre come intento a discutere con tutti: Socrate non discrimina nessuno nelle sue conversazioni. Naturalmente, in questa rappresentazione di un Socrate disponibile a discutere con tutti c’è l’intento di contrapporlo ai sofisti, che invece si facevano pagare profumatamente per le loro lezioni, e quindi si sceglievano interlocutori ricchi, di famiglie particolarmente facoltose. Naturalmente, con chi discutesse di fatto Socrate non lo sappiamo; sappiamo con chi lo fa discutere Platone, con chi lo fa discutere Senofonte, con chi possiamo pensare, da quegli scarsissimi resti che ci sono rimasti, lo facessero discutere Euclide, Antistene, Eschilo e altri socratici. In Platone gli interlocutori naturali di Socrate sono i grandi sofisti o i rampolli di nobili famiglie, come Carmide, Glaucone, Adimanto. Questi personaggi appartengono tutti a famiglie in vista di Atene, ma certamente nella cerchia dei personaggi socratici ci sono anche figure molto più modeste. Quando pensiamo agli interlocutori di Socrate dobbiamo pensare a quell’ambiente che in Atene si interessava dei problemi filosofici, e che era fatto di gente incuriosita dell’insegnamento dei sofisti e dei filosofi naturalisti, di ascoltatori dei grandi oratori politici. Probabilmente potremmo conoscere molto meglio Socrate se avessimo il testo delle orazioni di Pericle; ma purtroppo abbiamo soltanto quello che Tucidide gli attribuisce. Certamente questo è l’ambiente entro cui Socrate svolge il suo dialogare.
Per quanto riguarda il ruolo del dubbio nel dialogare socratico bisogna dire che Socrate ha come atteggiamento costante quello di revocare in dubbio tutte le certezze che gli sono presentate come tali; il sofista crede di sapere cos’è la virtù, e Socrate lo mette in dubbio; il grande stratega crede di sapere che cos’è la tecnica militare, e Socrate, in Senofonte, lo mette in dubbio; l’artista crede di sapere che cos’è l’ispirazione e la poesia, e Socrate lo mette in dubbio; ma l’intento di Socrate, attraverso questo dubbio, questa confutazione, questo esame, è quello di provare se veramente il suo interlocutore sa, o se invece crede soltanto di sapere, cioè se di fronte alle sue obiezioni egli ha una risposta convincente oppure no. In questo senso l’atteggiamento fondamentale di Socrate è un atteggiamento “elenchico”, confutatorio; però Socrate che ironizza, il Socrate che dissimula – perché questo è il senso del termine ironia nel linguaggio socratico: Socrate dissimula il proprio sapere di fronte alla pretesa di sapienza altrui. Si trattava dunque, diciamo, di strumenti dialettici, che avevano lo scopo di far emergere il consenso, perché la differenza fondamentale tra il dialogare socratico e la dialettica platonica, tra la homologhía, l’accordo, il consenso socratico e la verità platonica, è che Socrate pone il consenso e la discussione come condizioni della verità; Platone invece porrà la verità come condizione della discussione e della dialettica. Quindi il pensiero di Socrate, rispetto a quello di Platone, è un pensiero estremamente più laico, più critico, per così dire, molto più interrogante, dubitoso. Platone è un uomo di certezze. Socrate è un uomo di domande, Platone è un uomo di risposte; e quanto più la filosofia si è identificata con il dare risposte, tanto più si è rifatta a Platone e ad Aristotele; quanto più la filosofia si è posta come domanda, come interrogazione, tanto più si è rifatta a Socrate.
Il metodo socratico parte dunque dall’ironia e dal dubbio, che costituiscono la pars destruens, necessaria per sgomberare il campo dalle opinioni infondate; ma a questa pars destruens succede poi una pars construens, quella che si definisce maieutica, e che consiste nel far emergere la verità dell’interlocutore. Come si svolge questo processo?
Socrate insiste prevalentemente su un motivo: quello della ricerca in comune. Egli rimette in questione le opinioni che ciascuno si è fatto per proprio conto, e vuole che siano portate, per così dire, di fronte ad un tribunale, che è quello della discussione, del dialogo, che deve servire a compiere la ricerca in comune tra i due interlocutori, e a farli arrivare insieme ad un risultato; quale sia poi questo risultato, questo nella maggior parte delle fonti che noi abbiamo su Socrate non è delineato con chiarezza, ed è comunque sempre un risultato destinato ad essere rimesso in discussione. Però ci sono dei passi, nell’Apologia di Platone, in cui il Socrate confutatorio, il Socrate dubitante, il Socrate che sa di non sapere, una cosa la sa con assoluta certezza, e cioè che il sommo bene per l’uomo è appunto questo dialogare: tutto può essere, come dire, sottomesso al criterio del dialogo, ad eccezione del dialogo stesso, e quindi il dialogo è il sommo bene per l’uomo. È questa, mi pare, la parte più importante della filosofia di Socrate così come risulta dalle fonti. In questo senso Socrate è una delle grandi personificazioni dello spirito critico, dei diritti dell’obiezione, della ragione, della critica, e di tutto ciò che noi da sempre definiamo come antidogmatismo, come libertà di ricerca, libertà di indagine.
Nell’Apologia di Platone, Socrate racconta che il suo amico Cherofonte era andato a consultare l’oracolo di Delfi, e questo gli aveva rivelato che Socrate è il più sapiente di tutti gli uomini. Ma come interpreta Socrate questa frase? In che senso la sua sapienza coincide con la sua ignoranza?
Questo episodio è molto interessante perché ci consente anche di ricollegarci per un momento all’accusa di ateismo. Cerco qui di parafrasare il discorso di Socrate secondo la testimonianza di Platone: “Questo è il responso di un dio e un dio non può mentire, deve dire la verità; d’altra parte io sono assolutamente certo di non essere il più sapiente degli uomini, quindi come mi debbo comportare? Sottoporrò ad esame il responso del dio, lo metterò alla prova”; e da lì fa partire la sua ricerca: “Andai dagli uomini politici e misi alla prova la loro sapienza; andai dai poeti e misi alla prova la loro sapienza; andai dagli artigiani, e tutti mi apparvero – dice Socrate – come tali che credevano di sapere ma non sapevano realmente”. L’uomo politico non ha la scienza politica, ma governa in base alle opinioni, in base all’indulgenza verso i desideri delle masse, cercando di sollecitare i piaceri della gente, e quindi non secondo principi rigorosi. Il poeta è poeta per ispirazione divina, e non perché sa quello che poeta, mentre l’artigiano, sì, ha una sua esperienza, nel senso che sa costruire una nave o un ponte e via dicendo, però, dal fatto di sapere queste cose, presume di conoscere anche le questioni più generali. Così conclude Socrate: “Forse l’unico senso in cui il responso del dio può essere vero è che mentre gli altri credono di sapere ma non sanno, io almeno una cosa la so: so di non sapere; e questo sapere di non sapere è appunto quella sof¤a (sophía), quella sapienza, che mi attribuisce la divinità”. Si vede di qui che l’atteggiamento di Socrate verso la divinità non consiste nel riconoscerle la ragione perché è divinità, ma, paradossalmente, nel riconoscerne la divinità per il fatto che ha ragione. In altri termini, sono io che riconosco alla divinità il prestigio e la sacralità di cui le faccio credito, ma in base al mio esame. Quanto ad ogni sua pretesa di presentarsi come divinità, e di avere ragione per questo stesso motivo, questo è escluso. Anche questa è una concezione molto laica della divinità e della religiosità, che Socrate, il quale era certamente una personalità religiosa, intendeva in modo del tutto diverso da come comunemente era sentita a quell’epoca.
Proprio a proposito di religione, Socrate parlava di un daimÒnion (daimónion), che portò poi i suoi accusatori a sostenere che egli praticava una religione diversa da quella olimpica. Dietro questa voce del demone si è voluto vedere la voce della coscienza. Socrate sarebbe ricorso ad una metafora per dire: “Io dentro di me sento una voce che mi dice quello che io debbo fare, ed è la voce della coscienza”. Il daimÒnion, in quanto figura divina che accompagna gli uomini, ciascun uomo, si poteva prestare a questo; però si tratta di una voce della coscienza alquanto strana, poiché il demone distoglie ma non invita, si limita cioè a proibire di fare qualcosa, ma non stimola a determinate azioni. Io ho l’impressione, soprattutto in base al fatto che nessun socratico ha ripreso questo tema, che fosse un dato certamente caratteristico della biografia di Socrate, ma senza grande rilievo per la sua filosofia; un suo modo caratteristico di porgere e di presentare le cose, di motivarle e di giustificarle, ma privo di risvolti di carattere più generale e più filosofico.
Non disponiamo di nessuno scritto di Socrate, ma conosciamo una frase che pare egli ripetesse più volte: “conosci te stesso”. Si tratta di una frase che può anche essere molto enigmatica. Come si può interpretare questo motto socratico?
Il motto è delfico, nel senso che è uno di quei motti laconici, cioè molto brevi, che esprimevano la più arcaica sapienza greca, la sapienza dei sette sapienti, la sapienza delfica. Il senso originario era quello per cui “conosci te stesso” voleva dire “conosci i tuoi limiti”, “conosci chi sei e non presumere di essere di più”; era dunque una frase che esortava alla moderazione, e naturalmente soprattutto nei confronti della divinità: non presumere di essere come dio. In Socrate conserva certamente questo significato. L’idea della saggezza, quella che i greci chiamavano la svfrosÊnh (sophrosyne), è intrinsecamente legata a quella della moderazione. Tuttavia, in Socrate, il motto ha un valore più complesso, nel senso che il “conosci te stesso” è anche un’esortazione a conoscere il fondamento delle proprie convinzioni, a indagare quale sia la loro forza, e quindi la loro persuasività, la loro verità: è in questo senso che il motto, in Socrate, ha un significato più ampio di quello originario. Io non credo che possa essere interpretato in un senso introspettivo, che cioè Socrate esortasse a guardare nella propria interiorità piuttosto che non verso l’esterno, perché in genere l’esortazione di Socrate è piuttosto quella di parlare con gli altri.
Abstract
Per quanto Socrate rappresenti una delle fonti perenni della storia della filosofia, secondo Gabriele Giannantoni, la sua personalità può essere ricostruita in modo attendibile solo se collocata nella vita politica e culturale dell’Atene del V secolo. Le fonti ci hanno trasmesso di Socrate immagini diverse e spesso inconciliabili: Aristofane ne Le Nuvole ne fa una sferzante caricatura accomunandolo alle nuove filosofie naturalistiche e ai sofisti; Senofonte, al contrario, con intento apologetico, ne esalta le virtù. Parlando, poi, del processo e della condanna a morte di Socrate come epilogo di un lacerante conflitto con le istituzioni della polis, Giannantoni esamina il significato politico delle accuse di empietà e corruzione dei giovani. Ricondotta la scelta dialogica con cui Socrate intende differenziarsi dal relativismo dei sofisti alla superiorità del discorso parlato su quello scritto teorizzata da Platone , Giannantoni esamina i principali motivi del dialogo socratico: la scelta degli interlocutori, l’esercizio del dubbio quale consapevolezza di non sapere e l’ironia, quale dissimulazione della scienza propria e confutazione di quella altrui. In questo contesto e alla luce del principio del dialogo come sommo bene è possibile intendere, a parere di Giannantoni, l’ispirazione religiosa della missione socratica enunciata dall’oracolo di Delfi, che indica in Socrate il più sapiente degli uomini insieme al significato del daimon e del motto “conosci te stesso” .
Riferimenti bibliografici
Gabriele Giannantoni – Le radici del pensiero filosofico vol. VI: Socrate (1993)
Platone – Apologia di Socrate (2000)
Aristofane – Le nuvole (2001)
Senofonte – Apologia di Socrate (1995)