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Progetto filosofi – Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche
Aldo Carotenuto (Napoli, 25 gennaio 1933 – Roma, 14 febbraio 2005), già docente presso l’Università La Sapienza di Roma, è stato uno dei massimi esponenti dello junghismo italiano. In questa intervista espone il pensiero di Carl Gustav Jung (Kesswil, 26 luglio 1875 – Küsnacht, 6 giugno 1961), discepolo e prosecutore delle teorie psicoanalitiche di Sigmund Freud.
Segue il testo dell’intervista integrale
- Professor Carotenuto, Carl Gustav Jung è conosciuto soprattutto come uno dei più importanti allievi di Sigmund Freud, ma anche come il suo principale rivale. Ci può dire qualcosa sulla sua persona e sul pensatore?
Parlando di Jung è sempre necessario dissipare dei dubbi o equivoci. Per esempio, direi che Jung non è mai stato allievo di Freud, e, da un certo punto di vista, credo che non sia stato neanche un suo rivale.
Jung cominciò molto presto a leggere una delle opere fondamentali di Freud, L’interpretazione dei sogni, e ne rimase molto colpito. Scrisse a Freud della grande impressione che quest’opera gli aveva prodotto. D’altra parte, Jung a differenza di Freud, aveva cominciato a lavorare, già da molto tempo, in un ospedale psichiatrico, ed aveva avuto grande esperienza con i malati gravi, quei malati che noi oggi chiamiamo schizofrenici.
Egli rimase colpito dal contributo di Freud, il quale cercava di andare alla radice dei comportamenti umani. Jung aveva già realizzato un’esperienza, attraverso il “test di associazione”: contando il tempo con il quale una persona rispondeva a una parola, aveva intuito un rapporto tra il tempo impiegato per rispondere e una difficoltà della persona stessa. Jung chiamò “complesso” questo rapporto. Quello che Jung scopriva attraverso il test associativo era abbastanza coerente con quello che andava dicendo Freud. Quindi direi che Jung sia stato, più che un allievo, un collaboratore di Freud. Ovviamente, nella nostra cultura Freud, non solo per il fatto di essere venuto prima, ma per la grandissima dimensione della sua scoperta, ha un importanza del tutto particolare, anche se in fondo alcuni risultati della sua ricerca erano stati già preceduti da alcuni grandi personaggi del Settecento – mi riferisco, per esempio, alla scoperta dell’ipnosi – che avevano intuito l’esistenza di un mondo nascosto e naturalmente avevano dato delle spiegazioni molto diverse rispetto a Freud e a Jung.
FreudFreud capisce che è possibile delineare una nuova disposizione dell’animo umano, una disposizione che tenga conto non soltanto della coscienza, ma anche e soprattutto di altri aspetti della vita psichica non facilmente conoscibili e non conosciuti, a cui dette il nome di “inconscio”. Io preferisco usare il termine “inconscio” sempre come aggettivo, perché di per sé l’ “inconscio” non esiste. Noi con questo termine ovviamente ci riferiamo a una dimensione psicologica, attraverso la quale capiamo che non solo agiamo con una certa consapevolezza, ma che nel momento stesso in cui agiamo probabilmente una dimensione inconsapevole della nostra coscienza ci guida. Come in questo momento abbiamo un cuore che batte, ma non ne siamo consapevoli, così la nostra vita psichica si muove non solo sotto la spinta di una certa intenzionalità, ma si muove anche sotto la spinta di forze che Freud ha voluto denominare “forze inconsce”. Sarà poi tutto il successivo lavoro di Freud e di Jung che darà a queste forze un loro nome e una loro collocazione all’interno di quella splendida dimensione che è la dimensione psicologica.
- Sappiamo che c’è uno stile, una tecnica specifica di quella che si chiama la psicologia analitica di Jung rispetto alla psicoanalisi di Freud. Ce ne vuole parlare?
Naturalmente mi viene sempre chiesto: “qual è lo specifico di Jung?”. Questa è una domanda legittima; io non dimentico però una frase che Jung dirà a un certo punto nei suoi Ricordi, sogni e riflessioni dove dice che noi dobbiamo sapere tutto, conoscere a perfezione quanto detto da Freud e da altri autori, ma poi dobbiamo anche saper dimenticare tutto. In questo senso io potrei dire che lo specifico di Jung, la tecnica junghiana è quella di non avere nessuna tecnica. Io sono del parere che due analisti, che hanno veramente molta esperienza, siano di per sé inconfondibili, perché l’esperienza stessa porta le persone – in questo caso specifico gli analisti – ad avere lo stesso comportamento.
Ora, ammettiamo che ci sia un analista che nella sua attività porti un riferimento teorico a Jung. Durante l’analisi, egli dovrà prima confrontarsi con una dimensione che da Jung è chiamata “persona”. “Persona” è un nome latino, che vuol dire “maschera”, cioè quell’atteggiamento esteriore che tutti noi abbiamo e che dobbiamo naturalmente utilizzare rispetto al mondo esterno. Ad esempio è chiaro che io, quando insegno in aula all’università, devo assumere la maschera del professore, mentre in seduta d’esame assumo la maschera dell’esaminatore e via dicendo. Il consiglio di Jung è interessante perché dice: “state attenti, una cosa è il ruolo che voi svolgete, e una cosa è quello che siete veramente; state attenti a non identificarvi con queste immagini”. Allora sarebbe curioso se io avessi l’atteggiamento da professore, magari anche un po’ noioso, che ho durante le lezioni, nel momento in cui vado dal fruttivendolo per comprare della frutta.
Per lo stesso motivo è tecnicamente molto importante che il paziente si renda conto di quanto si sia identificato con la sua immagine. Successivamente, per Jung, è molto importante – io credo che questo sia fondamentale, non solo nell’analisi indiana, ma in tutte le analisi che vanno in profondità – che un individuo abbia a che fare con certi aspetti molto nascosti della sua persona. Jung parlerà a questo proposito di “ombra”, volendo indicare una dimensione, che è sempre tenuta un po’ fuori dagli aspetti evidenti della loro vita, e che noi ci portiamo dietro continuamente; ebbene, quanto più questa dimensione dell'”ombra” è nascosta, tanto più può prendere il sopravvento.
Durante le lezioni io porto sempre degli esempi di carattere letterario. L’esempio più bello ci viene fornito dalla letteratura, da Robert Louis Stevenson, con il famoso lungo racconto Lo strano caso del dottor Jekyll e di mister Hyde, che tutti noi conosciamo. Il dottor Jekyll era un medico molto importante nella Londra del tempo, era molto buono, aveva devoluto, e stava devolvendo, tutte le sue ricchezze per poter aiutare i poveri. Ma contemporaneamente era portatore di una dimensione molto violenta, arrogante, assassina, della quale non era consapevole, nel senso che non aveva una comprensione di quello che gli stava succedendo. L’unica cosa di cui si rendeva conto era che improvvisamente subiva una trasformazione. Inizialmente si trasforma in seguito all’assunzione di una particolare pozione, ma lo stesso evento avviene automaticamente, e noi sappiamo che alla fine del romanzo di Stevenson il dottor Jekyll viene ucciso da mister Hyde.
Ora, in maniera del tutto analoga, potremmo dire che noi siamo portatori di un mister Hyde. Faccio notare che, in inglese, il verbo “to hide” significa “nascondere”. Quindi è importante che nell’incontro che io ho con un paziente emerga subito questa immagine, vedere dov’è che noi abbiamo l'”ombra”, quali sono i nostri aspetti più problematici, gli aspetti dei quali noi ci vergogniamo, gli aspetti che noi teniamo nascosti. Secondo la mia esperienza, io direi che quanto più questi aspetti sono nascosti, tanto più diventano importanti per noi, perché quella dimensione che noi critichiamo e che valutiamo molto negativamente, può invece essere anche la fonte della nostra forza. Ma noi diventiamo forti solo se smascheriamo questa forza, se noi la guardiamo negli occhi, se ci rendiamo conto della malvagità di cui noi siamo o potremmo essere responsabili, anche se in linea generale noi tendiamo a tenere nascosta questa immagine. E quanto più noi la teniamo nascosta, tanto più questa immagine prende il sopravvento e ci distrugge.
Successivamente, Jung ci parlerà di un altro aspetto molto importante. Noi sappiamo tutti che cosa significa essere uomini ed essere donne, sappiamo tutti che cosa significa entrare in relazione l’uno con l’altro, ma forse non sappiamo che molte immagini che noi andiamo cercando nella vita – come ad esempio il “principe azzurro” o la “fatina” – sono in realtà immagini che ci portiamo dentro e che abbiamo mutuato dalla nostra esperienza infantile, dalla nostra primissima esperienza, quando abbiamo avuto rapporti, per esempio, con nostra madre – adesso parlo in senso maschile. Questa madre viene introiettata, diventa un’immagine interna, che guida la nostra ricerca di un’anima gemella. Anche questo è del tutto inconscio. È interessante, per esempio, vedere alcune situazioni nelle quali si sbaglia sempre, cioè si sceglie sempre la stessa tipologia, anche se apparentemente si cambia. In questo modo, se io non me ne rendo conto, e non opero una certa correzione di questa forza interna, per tutta la vita continuerò a sbagliare.
In questo grande processo di sviluppo, Jung parla di un bilanciamento di tutta la nostra parte cosciente con la parte inconscia, che permetterà all’individuo di raggiungere quella che egli chiama “totalità”. Ma ciò non significa che alla fine noi possiamo essere contenti di questo raggiungimento, perché si tratta di un viaggio, direi, di stampo “romantico”, per il quale ciò che conta non è la meta – in fondo irraggiungibile – ma il momento stesso del viaggio. Quindi si procede verso un obiettivo che non si raggiunge mai, e che consiste in un bilanciamento abbastanza coerente tra parte conscia e inconscia; ciò consente di dare alla nostra vita un senso di totalità.
- Ci sono due termini usati da Jung – “introverso” ed “estroverso” – che sono diventati molto celebri, e sono entrati anche nel linguaggio comune. Ci può dire come è nata, nel pensiero di Jung, l’opposizione tra “introversione” ed “estroversione”?
Jung potrebbe essere considerato un grande teorico della personalità – vorrei ricordare che nel 1921 diede alle stampe un famoso libro, intitolato Tipi psicologici. Per Jung i “tipi psicologici” hanno un senso soltanto se noi capiamo a quale tipo apparteniamo. Io nutro sempre dei dubbi – sono professore proprio di “Psicologia della personalità” – sulle classificazioni troppo schematiche, perché, per nostra fortuna, l’essere umano è talmente variabile, è talmente individuale che non può essere mai racchiuso in una formula, e occorre sempre mantenere un’ampia prospettiva per poter comprendere una certa specificità.
Jung si era accorto che gli esseri umani possono comportarsi secondo due fondamentali tendenze. Una di queste è quella di essere attratti proprio dal mondo esterno; l'”essere fuori” è da Jung denominato “estroversione”. Si vive proprio perché c’è un mondo di relazioni, un mondo di cose, ed infatti, molti di noi, la maggioranza del tempo, passano la vita con questo atteggiamento. E’ il mondo esterno che conta: conta avere una bella macchina, conta avere dei buoni amici, conta anche un successo nel lavoro. E sono naturalmente cose importanti perché fanno parte, del resto, della nostra esperienza. Ma – qui c’è un “ma” – si danno delle tipologie molto diverse. Tutti noi conosciamo delle persone molto riservate, che stanno sempre per conto loro, che magari preferiscono un concerto a una festa da ballo: sono quelle persone che Jung chiama “introverse”. La persona introversa è una persona che, in un certo senso, può fare a meno delle cose esterne, perché è nutrita, appunto, da una dimensione interna, nel senso che c’è un flusso interno di immagini che lo appaga. Questo tipo di persona non ha bisogno, ad esempio, di guardare una partita di calcio. Operazione nobile per chi lo fa, ma per una persona del genere, una persona cioè che è introversa, è più importante magari ascoltare una poesia o fare delle passeggiate solitarie – mi viene in mente a questo proposito un famoso libro di Rousseau, Le passeggiate di un solitario. Anche le persone introverse hanno bisogno, in un certo senso, di un colloquio, perché hanno un’interiorità prorompente che grida e che si vuole estrinsecare. Da questo punto di vista si può capire il motivo per cui, ad esempio, molti artisti sono delle persone introverse.
L’intenzione di Jung, scrivendo questo libro, era quella proprio di far vedere come lo sforzo dell’uomo dovrebbe consistere nel poter raggiungere quell’aspetto tipologico nel quale è carente. Per Jung si nasce introversi o estroversi. Adesso lasciamo da parte la lunga discussione, se l’ambiente influisce o no su questo aspetto Io, direi, da un mio punto di vista, che l’ambiente e l’eredità sono due cose unite, non si possono dividere. E’ chiaro che si ereditano gli occhi azzurri o gli occhi neri, ma da un punto di vista psicologico le due cose non possono essere così delimitate. Direi quindi che ambiente ed eredità giocano un ruolo importante in maniera quasi parallela. In questo caso, anche se si parte come persone estroverse, sarebbe poi necessario, per una completezza della nostra processualità psicologica, potere sviluppare anche gli altri aspetti. Per cui si può capire bene che il libro Tipi e aspetti psicologici, è un libro sull’individuazione, nel senso che permette alla persona di specificare sempre più il senso della sua vita psicologica, e cercare di impadronirsi di altri aspetti di cui è apparentemente carente e andare verso una dimensione, attraverso la quale noi, appunto, raggiungiamo un’individuazione delle nostre possibilità più creative, e, soprattutto, più personali.
- Jung si è molto occupato dei sogni, come del resto anche Freud. Potrebbe parlarci sulle differenza sostanziali tra i due approcci e soffermarsi sul punto di vista specifico di Jung?
Io sono del parere che anche per il mondo dei sogni ci sia stata una grande osmosi tra Freud e Jung. Penso che se dovessi sentire l’interpretazione di un sogno di un bravo analista con decenni di esperienza, non riuscirei a capire se è di scuola junghiana o freudiana. L’evidenza stessa delle cose permette, attraverso l’esperienza, di dire e di utilizzare dei comportamenti che sono necessariamente analoghi.
Sia gli analisti junghiani che quelli freudiani fanno uso delle “libere associazioni” del paziente, ma lo specifico junghiano è quello di capire che le immagini del sogno sono rivelatrici di qualche cosa, non nascondono nulla. Nel sogno certi tipi di immagini hanno un qualche significato perché le ho scelte io: noi dobbiamo pensare che il sogno è, come si suol dire, “egoico”, nel senso che io ne sono il regista e dunque esso in un modo o nell’altro, si riferisce a me. Se io ad esempio sogno delle immagini molto belle, è chiaro che questa bellezza si rivolge a me; se io sogno di essere un persecutore nazista che mette su un campo di concentramento, ciò è rivelatore di una dimensione interna, con la quale io devo dialogare per cercare di capire, anche se certamente io non sono nazista e non ho nulla a che fare con i campi di concentramento.
Il sogno è sempre interessante perché è lo strumento attraverso il quale il paziente dialoga con se stesso. È ovvio che l’analista, che per molti anni ha sentito raccontare dei sogni, con opportune domande e con una discussione di carattere dialettico fra lui e il paziente, è capace di disvelare un mondo che altrimenti non sarebbe emerso. Il sogno ha questa capacità, di far emergere dei contenuti che forse noi abbiamo “dimenticato” – come è noto il termine esatto è “rimosso”. Che cosa significa, ad esempio, che io ho dimenticato dei rapporti molto duri che ho vissuti quando ero bambino? Può significare che quelle esperienze erano così dolorose che io ho sentito il bisogno di allontanarle dalla mia vita. In realtà, le ho allontanate, ma non le ho cancellate del tutto, perché esse continuano ad operare nascostamente dentro di me. Così molte volte l’origine del mio malessere, l’origine del mio comportamento che non si spiega in nessun modo, può avere la sua ragion d’essere nel fatto che certe esperienze della mia vita, non maturate, non portate alla coscienza – noi diremmo non “elaborate” a sufficienza – continuano a far sentire il loro fastidio, la loro importanza.
Nello specifico junghiano il paziente scrive il suo sogno. È molto probabile, almeno per quanto mi riguarda, che un analista junghiano abbia raccolto centinaia e centinaia di sogni che sono interessanti. Io ho sempre pensato questo: ammettiamo che ci sia una persona, che non vada mai in analisi, che però cominci a prendere nota dei suoi sogni e vada avanti per anni. Anche se una persona non è del tutto pratica di analisi, guardando con attenzione e continuità i propri sogni, vedrebbe che c’è un percorso, che c’è una specie di evoluzione: questo è uno specifico di Jung.
Io non penso che un altro analista, magari appartenente alla scuola freudiana, non possa fare lo stesso. Anzi, probabilmente farà lo stesso, anche se magari non lo dice. In questo senso, ribadisco l’idea che alla fine la cura che l’analista svolge, è una cura che lo riguarda direttamente, perché in fondo noi analisti curiamo sempre in rapporto a noi stessi. E’ chiaro che abbiamo bisogno di punti di riferimento, è chiaro che io conosco tutto quello che ha scritto Jung, o tutto quello che ha scritto Freud – per citare i nomi più noti. Ma alla fine, io mi trovo solo di fronte al paziente, non ho possibilità di ricorrere a quello che loro hanno detto, non posso andare a consultare la mia biblioteca e prendere un libro per vedere che cosa dice Jung in un certo momento. È solo la mia esperienza, la mia capacità, io direi la mia abilità terapeutica, che, in un rapporto molto profondo col paziente, lo può portare verso la guarigione.
Jung nel 1946 ha scritto un libro intitolato La psicologia del transfert. Qui Jung dice qualcosa di estremamente importante, e cioè che la dimensione del rapporto umano diventa la dimensione fondamentale della nostra vita psichica. Questa è scandita dai primi rapporti con i propri genitori, e non sempre questi rapporti sono felici. Ciò accade non perché ci sia una cattiva volontà da parte delle persone più grandi di noi di offrirci esperienze negative. Quello che conta è il vissuto. Così, ad esempio, anche un aspetto che ci viene presentato come positivo, in realtà noi lo possiamo vivere male.
In un rapporto, nel quale io mi procuro delle ferite che mi fanno male, sarà necessario, affinché quelle ferite guariscano, avere una altro rapporto. In altre parole, è come se si trattasse di una medicina omeopatica: se i rapporti mi hanno fatto star male, sarà un rapporto che mi farà star bene. Ma che tipo di rapporto? E’ questo il punto. Non parlo di un generico rapporto di amicizia, ma di qualcosa che va molto in profondità; per questo posso dire che è difficile fare il lavoro dell’analista se non si è coinvolti dalla situazione, perché se non si è coinvolti non si crea quel rapporto, che è alla base poi della guarigione psichica.
- Che definizione darebbe della nevrosi, considerando che è stata la patologia da cui si è sviluppata la teoria di Freud?
Direi che la “nevrosi” è un grido di protesta della persona verso una situazione che lui sente contrastante con la sua vita. Ciò è molto importante, perché attraverso una prospettiva legata al riconoscimento dell’individualità e della persona, noi possiamo smettere di considerare un comportamento come patologico tout court. Riconosciamo cioè che ci sono delle persone per le quali è necessario agire in un modo piuttosto che in un altro. Prendiamo, per esempio, quelle persone che, a un certo punto, decidono di non mangiare, sviluppando un certo tipo di malattia, la cosiddetta “anoressia”. In passato molte donne erano addirittura ritenute delle sante perché si consumavano nel non mangiare, mentre adesso non sono altro che delle malate, che magari vengono curate in ospedale. Ricordando ciò, vorrei far capire una cosa importante: la “nevrosi” è certamente un disturbo della nostra personalità, ma prima di dire che esso sia patologico, noi dovremmo intenderci su che cos’è la cosiddetta “normalità”. Noi siamo costretti a riconoscere che la normalità ha un valore storico, nel senso che è possibile ciò che era patologico duecento anni fa adesso non lo è più. Io direi che il nevrotico è una persona che anticipando di gran lunga un mondo nuovo e diverso, avrebbe bisogno di valori completamente diversi rispetto a quelli esistenti, ma poiché ciò non è possibile, diventa un visionario, diventa una persona che dà fastidio. Da questo punto di vista, si spiega, l’esistenza dei manicomi e di persone che sono pagate proprio dallo stato per ricondurre a “normalità” altre persone, che, in realtà, proprio “anormali” non sono.
La “nevrosi” è un disturbo della nostra personalità che va preso veramente con le molle perché indica soltanto la presenza, sia nella persona sia nell’ambiente, di un tentativo di protesta. Non si può neanche immaginare quante persone, che vengono portate da me come “malate”, rivelano, attraverso il colloquio, soltanto una formidabile protesta nei confronti di situazioni che loro non accettano. Purtroppo, però è molto più comodo pensare che queste persone siano malate, in modo tale che l’equilibrio nel quale sono inserite non venga mai messo in discussione.
- Il rapporto tra medicina e psicoanalisi è stato sempre difficile e complesso. Come giudica l’uso, a scopo terapeutico, dei cosiddetti “psicofarmaci”? In che senso, nel caso dell’analisi junghiana, si può parlare di “guarigione psichica”?
Io credo che non bisogna negare che naturalmente ci sono, per un individuo dei momenti di malessere molto duri, in cui prendere uno psicofarmaco è necessario. Ma non si può pretendere di curare con gli psicofarmaci una persona, che “offre” al mondo un suo disturbo, se questo non viene capito e non se ne afferra il grande messaggio psicologico; direi che la funzione del farmaco più che di curare, è quella di attutire. E’ come togliere l’energia elettrica lì dove c’è un corto circuito. Naturalmente il corto circuito scompare, ma così scompare tutta l’elettricità. Questo è un problema molto grave, che richiede, da parte di tutti noi, un notevole impegno. Riguardo alla questione terapeutica bisogna sottolineare il fatto che Jung non promette nessuna guarigione. Questo è secondo me uno dei punti più interessanti, anche più rivoluzionari della sua opera, perché la mentalità comune fa sì che una persona che sta male psicologicamente, andando da un analista, richieda lo stesso atteggiamento che si richiederebbe a un medico. Se ad esempio mi fa male un ginocchio, il medico deve intervenire e, quale che sia il malanno, più o meno lo fa passare. Ma la vita psichica è un pochino diversa. Il momento del disturbo psicologico coinvolge tutta la personalità; l’opera fondamentale dell’analista non è tanto quella di guarire, ma di capire esattamente i motivi di quel determinato malessere. Facciamo l’esempio di un individuo che è stato sempre bene e che a un certo punto comincia ad aver paura, a provare il cosiddetto “panico”. Allora, il problema di questa persona non si può affrontare dandogli una pillola, perché non è tanto una questione di paura, ma un problema di tutta la sua personalità. Si può scoprire che lui, in fondo, per moltissimi anni ha mentito a se stesso, accettando, per esempio, di svolgere un’attività che non è per niente consona con la sua vita; dopo anni e anni, improvvisamente avviene qualcosa che travolge la sua vita.
Il discorso di Jung – e ma direi anche di tutti gli psicoterapeuti – è quello di integrare nella totalità della psiche questo sintomo, questa difficoltà, e quindi – come dirà Jung – di imparare ad accettare il dolore della “nevrosi”. Ora, naturalmente, non si può fraintendere e dire: “ma allora io starò sempre male nella vita!” Questa è una cosa diversa, perché, se si deve procedere in avanti, deve crescere tutta la persona, perché la malattia psichica non riguarda un aspetto singolo, anche se naturalmente si presenta come qualcosa di singolo. Il superamento della malattia psichica è una rivoluzione di tutta la mia esistenza. Ecco perché, fra l’altro, il discorso di una terapia psicologica richiede molto tempo, tutto quello necessario perché il processo psicologico si metta in moto e possa condurre a certe conclusioni.
Il concetto di nevrosi, quindi, inteso come disturbo della personalità, può essere visto come una contraddizione, che improvvisamente emerge e che si allontana da quella che è la normalità. Se a un certo punto io smetto di prendere l’ascensore, perché ho paura, e questa paura non è giustificata da nulla – mentre la paura di un leone che mi può assalire ha la sua giustificazione – allora io mi debbo chiedere: perché ho paura? Ma è proprio questa domanda che mi fa comprendere come quella paura possa aprire un varco enorme in cui io posso vedere grandi cose, purché tutta la mia vita venga messa in discussione. Questa induzione a pensare deve implicare una cosa fondamentale. Le cose non possono più andare come prima, non posso continuare a essere quello che sono. Si è spaventati da questi momenti, perché il cambiamento fa paura. Prendiamo, per esempio, un individuo che conduce da anni una vita matrimoniale che magari non ha più nessun senso, e che improvvisamente comincia a star male. Se questa persona si vuole interrogare veramente e dare una risposta al suo malessere, deve mettere in discussione cose che effettivamente richiedono grandi sforzi, e ciò non è facile, perché la vita è già tanto difficile di per sé – mi ricordo che Freud diceva: “la vita addirittura è insopportabile”. Ecco perché noi poi abbiamo bisogno, per esempio, di sostanze che ci inebrino la vita; abbiamo bisogno di illusioni, che permettono a noi stessi di pensare che la nostra vita potrebbe essere anche diversa. Si pensi, ad esempio, all’impegno politico. Io vorrei ricordare i campi di concentramento. Molte volte coloro che riuscivano a resistere e a sopportare pene inimmaginabili erano poi le persone politicamente impegnate, cioè quelle che comunque avevano un’ideologia, una progettualità che gli ha permesso poi di andare avanti nella vita.
Per tutta questa serie di ragioni, ad una persona che ha sviluppato un sintomo, non si potrebbe dare semplicemente un farmaco. Questo sarebbe un tradimento perché si riuscirebbe solo a far scomparire il sintomo, che invece vuol dire sempre qualcosa che riguarda la persona.
- Che cosa intende esattamente Jung quando parla di “individuazione”? Come interviene e che funzione svolge tale concetto nell’analisi?
Il “processo di individuazione” potrebbe essere proprio lo specifico della psicologia junghiana e della sua terapia. Per illustrare questo concetto posso ricorrere all’esempio del linguaggio. Noi parliamo con un linguaggio che abbiamo mutuato dalla nostra famiglia, dal nostro ambiente, dalla nostra città. Questo linguaggio ha una sua musicalità, ha una sua melodia, per cui è possibile – non bisogna neanche essere molto esperti – comprendere subito, non appena una persona apre bocca, se questa persona proviene dalla Campania, dalla Sicilia o dal Veneto. Ora la domanda, così importante, che ci dobbiamo fare è questa: quelle persone che parlano con accento veneto oppure siciliano o di un’altra regione, non hanno fatto nessuno sforzo per apprendere questa musicalità. Per il semplice fatto di vivere lì, loro non possono che parlare con la musicalità veneta o siciliana. E questo è molto evidente. Ma è meno evidente invece un altro fatto: che noi, come abbiamo assorbito questa musica del linguaggio, abbiamo poi assorbito altre cose, per esempio gli atteggiamenti, i valori psicologici della situazione che vivevamo in quella famiglia, in quella città, in quella nazione.
La domanda di Jung è questa: ma è proprio vero che questi valori, che io ho assunti, sono i miei, legati alla mia vita, oppure sono delle cose false, di cui io mi sono appropriato, così come mi sono appropriato, ripeto, della musicalità della mia lingua? Alla luce di quanto ho detto, si può capire che cos’è il “processo di individuazione”. E’ praticamente un allontanamento, una differenziazione da valori esterni – che Jung chiamerà “valori collettivi” – appartenenti un po’ a tutti. Tale processo consente di ritrovare dei valori molto più autentici, veri, e soprattutto fondamentali per la mia vita, che Jung chiama appunto “valori individuali”. Tutti hanno dei “valori individuali”; ma quante sono le persone che fanno questo sforzo di riconoscere come sia necessario liberarsi dai “valori collettivi” che ci sommergono? Quando, per esempio, io parlo con un mio paziente, molte volte mi chiedo: “ma chi sta parlando”? Per me è infatti palese che quello che sta dicendo non gli appartiene, perché risulta, come dire, stonato. Allora chi parla al suo posto è magari il padre, la madre o comunque un’altra persona. Poiché naturalmente ha dovuto, come dire, assimilare queste cose senza saperlo, mi propone una serie di valori che non gli appartengono. Quello che è interessante è che lentamente, molto lentamente, tutto lo sforzo del nostro lavoro va proprio verso un processo che permetta all’individuo, che fino a quel momento era stato in un certo senso “diviso”, diventare unico – perché individuo significa esattamente “non diviso”, unico – e trasformarlo in una persona con una coerenza interna, che gli permetta di essere finalmente padrone delle sue motivazioni, dei suoi valori e, soprattutto, responsabile della sua vita. Perché in effetti il problema sta nel fatto noi viviamo un’esistenza che è condizionata dagli altri. Ora, molte volte il condizionamento degli altri può essere anche positivo, perché la nostra vita è una vita di individui che hanno rapporti e non possiamo e non dobbiamo fare a meno del resto del mondo. Ma noi intanto possiamo essere quelli che siamo se ci diamo questa differenziazione che per molti aspetti ci fa paura. A me piace sempre ricordare che le grandi persone, che hanno lasciato un’impronta nella nostra vita, molte volte hanno pagato duramente questa forza e questa dimensione di unicità. Pensiamo a Socrate, che è uno di quei rappresentanti della storia del pensiero che ha pagato con la propria vita la sua dimensione originale. Ma pensiamo, più recentemente, agli scienziati, pensiamo a Galileo, che seguendo una sua strada, capisce che il mondo può essere compreso in termini completamente diversi da come si voleva imporlo, e, per questo, rischia il rogo e la tortura. Non c’è scienziato, non c’è artista – si pensi a Picasso o a Joyce – e più in generale persona che abbia portato nella vita una dimensione di novità che non abbia dovuto pagare un prezzo molto alto per la sua coerenza.
Riferimenti bibliografici
Aldo Carotenuto – Jung e la cultura del XX secolo – Bompiani, 1995.
Carl Gustav Jung – Ricordi, sogni, riflessioni – BUR, 1998
Carl Gustav Jung – Tipi psicologici – Bollati Boringhieri, 2011