Progetto filosofi – Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche
In questa intervista il filosofo Vittorio Hösle (Milano, 25 giugno 1960) spiega la teoria della conoscenza del filosofo tedesco Immanuel Kant (Königsberg, 22 aprile 1724 – Königsberg, 12 febbraio 1804).
Di seguito il testo con la trascrizione dell’intervista integrale al professor Hösle.
1. Qual è il contesto storico e culturale in cui si compie la formazione di Kant, intendendo questo contesto nel suo senso più ampio?
Kant, come è noto, è vissuto a Königsberg, e le sue idee sono state profondamente influenzate, fino agli ultimi anni della sua vita, dal pietismo protestante. Come egli dichiara nella Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura, lo scopo della sua filosofia fu quello di “sospendere il sapere per far posto alla fede”. Per quanto riguarda l’ambiente culturale e filosofico, Kant si è formato su una metafisica eclettica, in parte critica verso la scuola leibniziano-wolffiana, in parte da essa influenzata. Questo è lo sfondo culturale in cui Kant è maturato, all’incirca fino ai suoi quarant’anni.
In termini molto generali, il mondo in cui egli si muove è quello dell’illuminismo, del tentativo di fondare sulla ragione le istanze di validità della religione, dello stato, del diritto. Per quanto riguarda la letteratura dell’epoca, il tono non era di grande freschezza; la maggior parte dei letterati della prima metà del Settecento, fino a Lessing ed al giovane Goethe, erano influenzati dal razionalismo della poesia classica francese. Questa sensibilità letteraria un po’ rigida, priva di grande vigore, è stata molto importante per Kant, anche se il suo amico Johann Georg Hamann ha avuto un ruolo significativo per lo sviluppo del movimento dello Sturm und Drang.
Hamann fu un critico severo della filosofia di Kant, nella quale vedeva un’espressione di quel razionalismo rigido e limitato, che il romanticismo volle in seguito superare.
Kant è nato e vissuto nel XVIII secolo, fino ai primi anni dell’Ottocento: il contesto nel quale è maturato è quello dell’età dei lumi. La filosofia di Kant è il compimento della filosofia dell’illuminismo, e ne riflette l’esigenza di sottomettere ogni problema al giudizio della ragione, al “tribunale della ragione”; naturalmente, questo vale in primo luogo per le questioni etiche e politiche, oltre che per quelle religiose. Questa è la cornice generale nella quale si inserisce la filosofia kantiana: per il resto, Kant nacque e visse a Königsberg, una città della Prussia orientale, e fu profondamente influenzato dal pietismo protestante che vi era diffuso. Suo padre era un sellaio, e Kant, come è noto, non ha mai lasciato Königsberg, ma vi ha trascorso tutti gli ottanta anni della sua vita senza allontanarsene per più di 10 o 20 chilometri; non si recò nemmeno a vedere i grandi laghi della Prussia Orientale, non molto lontani dalla sua città. Questo dà una certa patina di provincialità alla sua filosofia. Infine, Kant non si è mai sposato, e ha vissuto la vita del grande erudito, si può dire senza grandi contatti con la realtà, dedicandosi soprattutto all’insegnamento universitario.
In un certo senso la sua filosofia, pur richiamandosi alle esigenze dell’illuminismo, tenta di argomentare alcune idee fondamentali del pietismo. Dal punto di vista politico, egli visse sotto il dispotismo o assolutismo illuminato dei re prussiani, in primo luogo di Federico II, per il quale ebbe grande ammirazione e che lo conquistò all’assolutismo, anche se, come è noto, Kant fu un sostenitore del repubblicanesimo e salutò con entusiasmo gli esordi della Rivoluzione francese.
2. Kant era contemporaneo di grandi personaggi, di scienziati come Newton, Alessandro Volta, Galvani, Laplace, Lavoisier, Spallanzani, Fahrenheit. Qual è l’influenza delle scoperte scientifiche e della fondazione teorica delle scienze, soprattutto della fisica e della chimica, sulla riflessione di Kant?
Si può dire che la scienza moderna è stata per Kant una delle esperienze fondamentali. Decisiva, per il suo pensiero, era l’esigenza di validità assoluta che egli vedeva espressa dalla scienza del suo tempo: egli riteneva che la fisica newtoniana fosse vera in modo definitivo, ma nello stesso tempo, grazie alla critica empirista di Hume, era giunto alla conclusione che la base di tale validità non poteva essere empirica. Da qui nasce il problema di Kant: come sia possibile fondare la validità di una scienza che ha raggiunto tanti successi su una filosofia che possa condividerne i criteri di scientificità. Per Kant la fisica si è costituita come scienza grazie agli esperimenti di Galilei e di Torricelli; analogamente, nella prima Critica, egli rivendica alla sua filosofia il merito di essere la prima filosofia scientifica, che riesca ad incamminarsi per la giusta strada, che porta alla sua fondazione definitiva.
Ora, non va certo dimenticato che, soprattutto nell’immagine che ne offrono i manuali scolastici, Kant sia ricordato soprattutto per la Critica della ragion pratica, come se si trattasse quasi esclusivamente di un filosofo morale. Da questo punto di vista, direi che la grandezza di Kant è, in realtà, proprio quella di avere tentato – anche se secondo me si tratta di un tentativo fallito – di offrire una teoria unitaria del sapere scientifico e della coscienza etica. Questo costituisce la grandezza di Kant, e certamente ogni posizione critica che si concentri su una sola delle due parti della sua filosofia, e astragga dall’altra, è riduttiva. Ciò che fa di Kant uno dei massimi filosofi mai esistiti è proprio questa capacità di una visione integrale del sapere, che non lo riduce al solo sapere scientifico, o alla sola intuizione morale, ma cerca di conciliarli; questa è la sua grande prerogativa. Naturalmente è importante rendersi conto che Kant non è solo un filosofo della scienza, ma anche uno scienziato: egli ha formulato, come è noto, una teoria della generazione del sistema planetario, in seguito sviluppata da Laplace, che sembra essersi dimostrata in gran parte vera. Nel nostro secolo Carl Friedrich von Weizsäcker, il noto fisico tedesco, ha offerto una nuova teoria della generazione del sistema planetario che richiama da vicino quella di Kant e Laplace. Kant aveva vasta conoscenza della scienza del suo tempo, ed era in grado di formulare proposte di alto livello; i suoi lavori sono incomprensibili se non si conosce lo stato delle scienze matematiche e naturali della sua epoca. Molti degli scritti giovanili di Kant, i cui contenuti si differenziano dalla tesi proposte nelle opere dell’età critica e della maturità, trattano anche problemi scientifici molto interessanti. Come è noto, nello scritto Gedanken über die wahre Schätzung der lebendigen Kräfte (Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive), Kant tratta della possibilità di uno spazio dotato di più di tre dimensioni; qui, a differenza che nella Critica della ragion pura, accetta tale possibilità.
3. Fra i grandi pensatori del XX secolo quanti sono quelli che, come Kant, hanno avuto un approccio così rigoroso e approfondito alle scienze naturali, o alle scienze in genere?
Pochi, e per varie ragioni: la prima è, naturalmente, che le scienze del nostro secolo sono molto più complesse che ai tempi di Kant. Mantenersi al corrente sui risultati fondamentali delle scienze è oggi molto più difficile per un filosofo di quanto non lo fosse ai tempi di Kant; si tratta di un obiettivo al quale dobbiamo avvicinarci, ma che è obiettivamente difficile da raggiungere.
Un filosofo come Heidegger è un classico esempio di pensatore che ignorava le scienze del suo tempo. Nel suo famoso libro del 1927, Essere e tempo, non recepisce la rivoluzione del concetto di tempo dovuta alla teoria della relatività speciale di Einstein. All’altro estremo abbiamo i filosofi analitici, che hanno ottima conoscenza della scienza del loro tempo – e penso a Wittgenstein, al Circolo di Vienna, al libro di Reichenbach sulla filosofia dello spazio e del tempo -, ma che hanno, a mio giudizio, un concetto riduttivo del sapere. Ai loro occhi l’unico sapere è quello scientifico, e non sono in grado di offrire, ad esempio, una teoria del sapere morale, o del sapere filosofico che fonda le teorie scientifiche. Una teoria del sapere scientifico non è infatti sufficiente: occorre avere anche una metateoria, che la fondi. Questo è ciò che manca nella filosofia analitica del XX secolo, ed è anche ciò che, in una certa misura, manca già in Kant. Per questo Kant, in un certo senso, può essere detto il padre della filosofia analitica.
4. Kant è vissuto durante l’illuminismo, un’epoca in cui gli uomini hanno iniziato a ricercare la ragione di ogni cosa; egli ha scelto per la propria filosofia il nome di criticismo. Perché “criticismo”?
L’idea fondamentale della filosofia kantiana è quella di sottoporre tutto al tribunale della ragione, cioè di analizzare ogni pretesa di validità, esaminandone la legittimità o l’infondatezza. Per Kant tali pretese di validità non si incontrano solo nella ragione teoretica, in quanto le scienze avanzano una pretesa di validità nella conoscenza del mondo naturale, ma anche nel sapere morale, nelle istituzioni politiche, che si richiamano a determinati criteri morali e politici, e naturalmente anche nella religione. La filosofia di Kant vuole pertanto determinare se tutte queste pretese di validità, che incontriamo nell’ambito della cultura umana, possono essere fondate, o devono invece essere limitate e circoscritte solo ad alcune sfere della realtà.
Kant afferma di avere introdotto nella metafisica una rivoluzione paragonabile a quella di Copernico nell’astronomia. Questo paragone è assai noto, ed è stato spesso criticato; molti filosofi del nostro secolo sostengono che Kant è in realtà un filosofo anticopernicano. L’idea fondamentale di Copernico è quella per cui l’uomo perde la sua funzione centrale nel mondo, e diventa solo un suo spettatore esterno.
Kant ritiene di essere il Copernico della filosofia, e vede come elemento di analogia fra la sua filosofia e la rivoluzione astronomica di Copernico il fatto che entrambi mirano ad imporre un mutamento di prospettiva. Prima di Copernico gli astronomi credevano che il centro del mondo dovessere essere la Terra, e che il resto dell’universo le dovesse ruotare intorno; a partire da lui ci basiamo sul criterio per cui siamo noi osservatori a ruotare intorno all’oggetto. Analogamente, Kant afferma che prima della filosofia critica si è creduto che la conoscenza derivasse dalle categorie che usiamo per comprendere la realtà, intese come categorie oggettive, anteriori alla nostra coscienza. La filosofia kantiana ci mostra invece come le categorie attraverso le quali ordiniamo il mondo siano prodotte dal soggetto, e come sia il mondo, nella misura in cui possiamo averne esperienza, ad essere determinato dal soggetto, a muoversi e regolarsi – nei limiti in cui è oggetto di esperienza – secondo le categorie del soggetto, e non siano le categorie del soggetto a regolarsi sulle strutture oggettive del mondo.
Cionostante, nel nostro secolo si è spesso osservato come la filosofia kantiana, sotto il punto di vista del contenuto, sia in realtà una reazione anticopernicana. Con Copernico inizia infatti una svalutazione del ruolo dell’uomo nell’universo: l’uomo non è più il centro dell’universo, ma diventa l’abitante di una stella di poca importanza nel sistema dell’universo. Questo processo di svalutazione è proseguito con Darwin, per il quale l’uomo diventa un recente risultato dell’evoluzione della specie.
Questa è l’evoluzione che possiamo osservare in pratica: l’uomo viene sempre più svalutato. La filosofia kantiana, al contrario, si basa sull’idea fondamentale che la realtà è completamente determinata dalle categorie della ragione umana, e tenta in un certo senso di ristabilire l’uomo al centro dell’universo. L’uomo non è più al centro dell’universo da un punto di vista cosmologico, ma lo è da quello epistemologico; e la rivoluzione si basa proprio su questa idea fondamentale, che è la ragione umana a determinare cosa possa essere oggetto di esperienza, vale a dire cosa possa essere il mondo per noi.
5. Cartesio, Leibniz e Spinoza sono tra i pilastri della filosofia dell’epoca che precede immediatamente Kant, eppure li troviamo raramente citati nei suoi scritti. Cionostante possiamo dire che esiste una continuità, uno sviluppo che porta a Kant partendo da quelle radici. È possibile stabilire questi nessi, che Kant ha lasciato sotto silenzio?
Certamente la prima analogia fra il fondatore della filosofia moderna, cioè Cartesio, e Kant consiste nel fatto che entrambi i filosofi si sono interessati alla soggettività come fondamento dell’epistemologia. Per Cartesio, come è noto, il principio primo di ogni conoscenza è il “cogito ergo sum”, “penso dunque sono”; la base di ogni nostra certezza non è pertanto, come si potrebbe ritenere, la conoscenza del mondo esterno, ma la nostra autocoscienza, la conoscenza del nostro essere. Questo punto di vista è determinante anche in Kant, in quanto anch’egli vede il soggetto come anteriore all’oggetto; le categorie attraverso le quali conosciamo non sono astratte dalla realtà, non sono il frutto di un processo di astrazione, ma determinano esse stesse ciò che la realtà è. Questo è sicuramente il nesso principale fra i due pensatori. Si può dire, però, che questo momento della soggettività, già a partire da Cartesio, si è dissolto nella tradizione razionalistica anteriore a Kant. In Spinoza la soggettività è chiaramente uno dei due attributi della sostanza divina, e non si può dire che abbia una priorità rispetto all’attributo dell’estensione. In Leibniz, naturalmente, in quanto le monadi sono coscienti, o hanno almeno un certo grado di coscienza, la soggettività è presente; ma il sistema nel suo complesso può essere detto oggettivista, in quanto manca una riflessione sul carattere soggettivo delle categorie.
La filosofia di Leibniz, soprattutto nella forma sistematica e dogmatica datale da Wolff, è stata il modello filosofico della Germania del primo Settecento; Kant non ha mai aderito ad essa, ma si è formato nell’ambiente di una critica eclettica della filosofia leibniziana, un eclettismo che, mancando di un principio di fondo, era influenzato dal sistema che criticava. Si può dire così che la filosofia wolffiano-leibniziana è stata il modello della metafisica che il Kant critico ha inteso superare. Per arrivare a questo superamento fu determinante, però, la conoscenza del pensiero di Hume, il filosofo che, come è noto, risvegliò Kant dal “sonno dogmatico”.
In riferimento a Cartesio, la critica di Kant al cogito, svolta nel capitolo sui paralogismi, cioè nella prima parte della Dialettica della ragion pura, non si riferisce in primo luogo al fatto che si tratti di una tautologia. Questo viene riconosciuto, in un certo senso, anche da Cartesio, il quale sostiene anche che non si tratta di un sillogismo. Kant critica in generale i tentativi di costituire una cosiddetta “psicologia razionale”, soprattutto nell’ambito della scuola wolffiana, fondata su questa intuizione immediata. Per Kant non è possibile, basandosi su di essa, arrivare a proposizioni sintetiche a priori sulla natura dell’anima.
6. Entrando nel sistema filosofico kantiano, la prima cosa che vi incontriamo è una dottrina universalmente nota: la distinzione kantiana tra il fenomeno ed il noumeno. Come possiamo definire questi due concetti?
Per Kant, il fenomeno è il mondo come ci appare; il noumeno è invece il mondo come lo possiamo pensare, quando non è oggetto della nostra esperienza. Questa, esposta brevemente, è la distinzione più importante.
Si può dire che il problema fondamentale di Kant sia quello di fondare la scienza, senza incorrere in quello che giudica il risultato necessario della scienza moderna: il determinismo, e la convinzione che ne deriva che tutte le azioni umane siano determinate necessariamente. In base a questo punto di vista, in un qualsiasi istante t del tempo è già determinato quello che noi facciamo ora, o cosa sarà fatto fra mille anni. Questa è per Kant una conseguenze necessaria del principio di causalità che si trova alla base delle scienze moderne. L’idea fondamentale di Kant è che dobbiamo assumere – contro Hume – la causalità come una categoria necessaria per ordinare il mondo come ci appare, e dare così validità oggettiva, ossia intersoggettiva, al mondo della scienza. D’altra parte, poiché la categoria della causalità non è astratta dalla realtà, ma proviene, scaturisce dalla ragione umana, non è detto che il mondo nella sua vera essenza – in quanto non è oggetto di esperienza, ma è pensato – le sia assoggettato. Il mondo noumenico, quello che non si manifesta nei fenomeni, ma rimane celato dietro di essi, per Kant non è determinato dal principio della causalità naturale: in esso è possibile dare inizio spontaneamente ad una nuova serie di cause.
Alla luce della definizione kantiana, si potrebbe pensare, per il noumeno, ad un’analogia con l’idea di Platone. A mio avviso, tuttavia, non credo che ci siano analogie, anche se Kant ne ha vista qualcuna. Naturalmente c’è un aspetto formale in comune, in quanto il noumeno è il mondo al di là dell’apparenza. Ma l’idea fondamentale di Kant è che il noumeno non può essere categorizzato, mentre le idee di Platone sono proprio le categorie. Le idee platoniche sono strutture che non derivano dall’esperienza, ma ci permettono di comprenderla, mentre, per Kant, il noumeno è per noi assolutamente inconoscibile, proprio perché la conoscenza è determinata dalle categorie. L’esperienza, in quanto è determinata dalle categorie, che sono un atto spontaneo della ragione umana, non può darci la vera realtà del mondo; ed è questa realtà vera che Kant chiama cosa in sé o noumeno. Come ho detto, anche per Platone la realtà vera è qualcosa che si trova al di là dell’esperienza, può essere concepita solo con il pensiero, ma in modo determinato e chiaro, attraverso categorie. Dunque per Platone le categorie sono il noumeno, mentre per Kant il noumeno è tale proprio perché trascende le categorie che ordinano l’esperienza.
7. Possiamo paragonare il noumeno kantiano all’infinito matematico, una grandezza cui ci si può avvicinare senza poterla mai raggiungere?
Non credo che il paragone sia calzante, perchè disponiamo di teorie chiare sull’infinito matematico: siamo in grado di determinare i rapporti fra i vari infiniti, ad esempio fra i numeri cardinali ¿0 e ¿1; oppure fra l’insieme dei numeri naturali, interi, o dei numeri razionali, da una parte, e l’insieme dei numeri reali dall’altra. Possiamo formulare proposizioni perfettamente chiare, esatte e dimostrabili, sull’infinito matematico. Anche se volessimo negare l’infinito matematico in actu, potremmo descriverlo attraverso dei processi limite; il noumeno di Kant, al contrario, è inconoscibile in senso assoluto, non si può né dimostrare né, addirittura, affermare nulla al suo riguardo. Non può nemmeno essere concepito come il limite della ricerca: ad esempio, si potrebbe dire che le teorie scientifiche si avvicinano sempre di più alla realtà, e la realtà è il limite cui tendono le teorie scientifiche progressivamente formulate. In Kant non è così, perché il noumeno è per noi inconoscibile per principio: anche se disponessimo di un’altra scienza, non potremmo essere più vicini al noumeno, in quanto ogni scienza si basa sulle categorie, che sono il frutto spontaneo della ragione umana, e ci impediscono di conoscere il noumeno nella sua essenza.
Questo è proprio il problema centrale in Kant: non potendo dire nulla del noumeno, in realtà non potremmo neppure dire di non poter dire nulla. Io credo che l’ammissione del noumeno sia la maggiore contraddizione nella filosofia di Kant. Egli ha due motivi per introdurre il concetto di noumeno: il primo è di ordine pratico, e consiste nella necessità di sottrarsi al determinismo. Kant riteneva che l’unica alternativa al determinismo fosse la negazione di una validità ontologica assoluta alla categoria di causalità, e per questo, in base a motivazioni pratiche, egli giunge al concetto di noumeno. Il secondo motivo è di ordine teoretico, e deriva da un argomento con il quale Kant vuole mostrare, contro Hume, la validità oggettiva del principio di causa: per Kant, tale validità non può derivare dall’esperienza, perché l’esperienza può sempre solo provare che qualche cosa è in un certo modo, nel momento in cui la osserviamo, ma non può garantire che sarà così anche domani, o che lo è sempre stata, anche quando non eravamo in grado di osservarla. Dunque, se la categoria di causa non può derivare dall’esperienza, deve scaturire dalla nostra ragione; ma se è così, se per la ragione è necessario pensare il mondo in questo modo, cosa garantisce che la realtà che si trova dietro ai fenomeni sia costituita nello stesso modo? Noi siamo obbligati a pensare la realtà secondo il principio di causalità; ma proprio per questo, che siamo noi a doverla pensare così, cosa ci autorizza a ritenere che essa sia realmente fatta in questo modo? E poiché per Kant questa assunzione non può essere provata, dobbiamo ritenere che le categorie siano forme solamente soggettive, prive di valore oggettivo. Per distinguere la realtà oggettiva dalla realtà come ci appare attraverso le categorie e le forme dell’intuizione, spazio e tempo, Kant introduce il concetto di noumeno. Questi sono i due ordini di motivi che lo hanno condotto a farlo.
8. Kant afferma proprio che la ragione umana, nel momento in cui si discosta dall’esperienza, si trova già nella metafisica. Il problema della metafisica può essere identificato con il problema del noumeno? Oppure la metafisica inizia già con l’analisi del mondo fenomenico?
Occorre distinguere differenti concetti di metafisica in Kant. In primo luogo, egli ritiene che per fondare le scienze abbiamo già bisogno di un principio che non è basato sull’esperienza, non ne deriva per induzione. Questo punto è cruciale per Kant: per fondare il principio di causalità ci occorrono argomenti ulteriori rispetto alla constatazione per cui noi abbiamo sempre fatto esperienza che ogni evento ha una causa. D’altra parte, Kant ritiene che, per fondare questo principio, rimaniamo in un certo senso nell’ambito dell’empirismo, poiché lo deriviamo dal criterio della possibilità dell’esperienza. Kant riflette sulle condizioni che rendono possibile un’esperienza unitaria, ed attraverso questa riflessione apriorica tenta di fondare le categorie. Questo procedimento è in parte metafisico, in quanto trascende la singola esperienza, ma rimane legato all’esperienza, in quanto la metafisica che Kant riconosce legittima deve determinare le condizioni fondamentali dell’esperienza, le ragioni per cui essa è possibile. Credo che la definizione della filosofia kantiana come metafisica dell’esperienza sia molto appropriata.
Kant riconosce che per fondare l’esperienza abbiamo bisogno di qualcosa che si trovi al di là di essa, ma anche che questo qualcosa che la trascende dimostra la sua validità proprio fondando l’esperienza. La metafisica tradizionale, al contrario, non fonda nulla, per Kant, ma tratta di entità che non hanno riscontro nell’esperienza. Le categorie kantiane non sono fondate sull’esperienza, ma la fondano: con ciò stesso, però, sono legate al mondo dell’esperienza. Dunque, in Kant occorre distinguere la metafisica di cui è riconosciuta la legittimità, che fonda il mondo dell’esperienza, e la metafisica trascendente, che tratta di oggetti che si trovano al di fuori dei limiti dell’esperienza.
Un grande merito di Kant consiste, perciò, nell’aver condotto il primo tentativo di ampio respiro di allontanarsi tanto dal razionalismo, ormai incapace di spiegare la necessità dell’esperienza, quanto dall’empirismo, che non è in grado di fondare se stesso.
L’idea fondamentale di Kant è quella di esaminare delle istanze di validità, di legittimità, e decidere della loro ammissibilità. Nella Critica della ragion pura Kant vuole decidere se le pretese di legittimità della matematica, delle scienze naturali e della metafisica tradizionale possano essere accolte. Questo è l’intento della Critica della ragion pura.
9. Ritornando al tema dei rapporti con l’empirismo, nonostante Kant abbia riconosciuto a Hume il merito di averlo svegliato dal proprio sonno dogmatico, egli definisce gli scettici come una sorta di “nomadi, nemici giurati di ogni stabile cultura della terra”, che “rompevano di quando in quando la concordia sociale”. Queste parole esprimono un certo provincialismo di Kant, o una forte obiezione teorica?
Credo che abbiano un notevole spessore teorico, come credo che uno dei meriti di Kant consista nella sua presa di distanza dallo scetticismo. Ritengo che molto raramente i grandi filosofi siano stati scettici; ed anche quando si professino scettici, è bene distinguere. Hume ha scoperto due princìpi che meritano un posto d’onore nella storia della filosofia di tutti i tempi: innanzitutto che le categorie, e specialmente il principio di causalità, non possono essere fondate sull’esperienza; in secondo luogo, che i princìpi normativi non possono essere dedotti da proposizioni descrittive. Questi sono i suoi due grandi meriti, e sicuramente si può dire che egli abbia offerto la prova di qualcosa; gli scettici che abbondano ai nostri giorni, al contrario, non offrono alcun argomento dimostrativo, ma solo chiacchiere. Anche Kant ritiene che alcuni scettici si limitino alle chiacchiere, ma pensa che anche i più seri spingono verso la dissoluzione delle nostre convinzioni. E poiché non possiamo vivere senza le nostre convinzioni, come è chiaro nel caso dell’etica – ma non solo in essa – lo scetticismo esercita un’azione disgregante nell’ambito della società umana. Credo che la critica di Kant allo scetticismo sia giusta: egli riconosce che, nella storia della filosofia, è stato necessario passare dallo scetticismo per arrivare alla sua stessa filosofia, ma pensa anche che lo scetticismo sia un grado dello sviluppo della ragione al quale non ci si deve arrestare.
10. In Hume, Kant trova anche affrontato per la prima volta il problema dei giudizi analitici e sintetici. Innanzitutto, che cos’è un giudizio? Qual è la differenza tra giudizi analitici e sintetici?
I giudizi sono proposizioni assertorie – apodittiche o problematiche – che hanno una pretesa di verità, e che possono essere vere o false (perciò non possono essere dei giudizio proposizioni come: “Sei arrivato?”, o “Portami l’acqua”, o “Che bello”).
Ritengo che la definizione offerta da Kant dei giudizi analitici, per quanto non sia in contraddizione con la logica moderna, sia superata: essa si riferisce infatti ad una sola parte dei giudizi analitici. Per Kant sono giudizi analitici quelli in cui il predicato si limita a dichiarare quanto è implicito nel soggetto, senza aggiungere nuove informazioni. Ad esempio, se si dice “il vino rosso è un vino”, il predicato “un vino” non aggiunge nulla a quanto è contenuto nel soggetto. Esistono anche altri giudizi analitici, che Kant non esamina, e che, dal punto di vista della logica moderna, riguardano la logica delle proposizioni più che la logica dei predicati: ad esempio, una proposizione come “piove o non piove”, in cui non analizziamo la struttura elementare del giudizio, la struttura soggetto-predicato, ma mettiamo in alternativa due proposizioni. In generale, possiamo dire che le proposizioni analitiche sono proposizioni tali che la loro negazione implica contraddizione. Ad esempio, la negazione di “piove o non piove” è “piove e non piove, nello stesso tempo”, che è una contraddizione. Oppure, la negazione di “il vino rosso è un vino” è “il vino rosso non è un vino”, che è, di nuovo, una contraddizione. Le proposizioni sintetiche per Kant sono proposizioni che non possono essere derivate dal principio di contraddizione: egli ne distingue due tipi. Il primo tipo, il più diffuso, è rappresentato dalle proposizioni empiriche; se dico “questo marmo è rosso”, il concetto del rosso non è compreso in quello di marmo, perché esistono anche marmi bianchi. Proposizioni sintetiche non empiriche, ma a priori, sono proposizioni sulla cui verità possiamo decidere, come nel caso delle proposizioni analitiche, attraverso la nostra ragione, senza bisogno di singole esperienze; esse, però, non hanno una struttura tale che la loro negazione implichi immediatamente una contraddizione. Un esempio di proposizione sintetica a priori è, per Kant, “ogni mutamento ha una causa”.
Mentre “ogni effetto ha una causa” è una proposizione analitica, perché l’effetto è già definito come qualcosa che ha una causa, “ogni mutamento ha un a causa” non lo è, perché potrebbero egualmente accadere dei mutamenti spontanei, senza nessuna ragione. Kant è convinto che questa proposizione non possa essere fondata empiricamente, perché potremmo dire solamente, in tal caso: “tutti i mutamenti che abbiamo visto finora hanno una causa”; ed anzi nemmeno questo, perché abbiamo assistito a numerosi mutamenti dei quali non saremmo in grado di indicare la causa. Noi siamo comunque convinti che essa esista, anche se non possiamo individuarla: Kant direbbe che questa convinzione, che per ogni mutamento ci sia una causa, non si basa sull’esperienza, ma su qualcos’altro che garantisce il carattere necessario di questa proposizione. Un altro esempio di proposizione sintetica a priori sono, per Kant, tutte le proposizioni matematiche, ad esempio “5 più 7 è uguale a 12”.
Kant è convinto che le proposizioni matematiche siano sintetiche, e sia pertanto possibile un’unica matematica. Questo è sicuramente uno dei punti più deboli della sua dottrina, che è stato smentito dallo sviluppo ulteriore della scienza.
11. Dopo Kant, l’esistenza stessa di giudizi sintetici a priori è stata ripetutamente criticata. Vorrebbe presentarci brevemente le critiche avanzate nei confronti di questa dottrina kantiana?
È chiaro innanzitutto che chi abbia un concetto della ragione come capacità di analizzare contraddizioni, non può ammettere l’esistenza di giudizi sintetici a priori; da questo punto di vista, o i giudizi si basano sull’impiego della logica formale, e sono analitici, o si basano sull’esperienza, e sono sintetici a posteriori. Come ho già ricordato, uno degli aspetti più importanti della critica alla dottrina del sintetico a priori consiste negli sviluppi della scienza moderna. Oggi non crediamo che le proposizioni matematiche, ad esempio della geometria euclidea, siano valide in quanto tali, ma riteniamo che siano valide se sono validi gli assiomi da cui derivano, se esiste un nesso analitico fra assiomi e teoremi. Un secondo esempio è dato dalla convinzione di Kant che i principi generali della fisica della sua epoca avessero un carattere non empirico, che fossero validi al di là di ogni esperienza, e quindi inconfutabili per mezzo dell’esperienza; ma molti di questi principi sono stati rifiutati dalla fisica successiva. Questo non implica naturalmente che non esistano giudizi sintetici a priori, soprattutto nella fisica; potrebbe darsi che Kant si sia semplicemente sbagliato nell’indicare determinati principi come giudizi sintetici a priori, e non ne seguirebbe che giudizi sintetici a priori non esistono affatto. Un secondo aspetto della discussione riguarda l’esistenza di giudizi sintetici a priori nel campo dell’etica: se la neghiamo, giungiamo ad una posizione di cieco dogmatismo, che, escludendo la possibilità di fondare alcunché nell’etica, sostiene che si debba solamente credere in certi valori e nelle norme che ne derivano, oppure ridurci al relativismo più assoluto, a negare l’esistenza di comandamenti morali, perché è chiaro che le proposizioni morali sono tutte proposizioni sintetiche a priori. In altri termini, la posizione del Circolo di Vienna, che negava l’esistenza di proposizioni sintetiche a priori, ha portato ad un nichilismo etico.
12. Professor Hösle, il giudizio che nega l’esistenza di proposizioni sintetiche a priori è a sua volta un giudizio analitico o un giudizio sintetico?
Questa domanda porta ad una considerazione fondamentale, cioè che ogni teoria che neghi l’esistenza di proposizioni sintetiche a priori cade in una contraddizione che si distingue dalla contraddizione che sorge dalla negazione di una tautologia. Mi spiego: la proposizione “non esistono proposizioni sintetiche a priori” è, a sua volta, una proposizione sintetica a priori, o no? Poniamo che non lo sia; sarà allora una proposizione analitica. Se è così, dovremmo riscontrare una contraddizione nella proposizione che assume l’esistenza di proposizioni sintetiche a priori; ma dov’è la contraddizione nell’asserire l’esistenza di proposizioni sintetiche a priori? La proposizione non è pertanto analitica. Si potrebbe dire che è una proposizione a posteriori, ma, indubbiamente, non lo è. Quando si dice “non esistono proposizioni sintetiche a priori” non si intende dire che non esistano, ad esempio nei libri, proposizioni sintetiche a priori, perché qualsiasi testo della tradizione metafisica è pieno di proposizioni sintetiche a priori. Quel che si intende dire è che tali proposizioni, pur esistendo nella realtà, non sono legittime, non possono vedere riconosciuta la loro pretesa di validità; ma questo è un atto a priori, non a posteriori, e la proposizione “non esistono proposizioni sintetiche a priori” è essa stessa una proposizione sintetica a priori, che è pertanto sicuramente falsa, dato che si contraddice. Vorrei far notare che la contraddizione inerente a questa proposizione non è una contraddizione fra soggetto e predicato, o fra i due membri di un enunciato, dal punto di vista della logica delle proposizioni; infatti, se analizziamo dal punto di vista logico la proposizione “non esistono proposizioni sintetiche a priori” non individuiamo alcuna contraddizione. La contraddizione è una contraddizione fra ciò che la proposizione dice e ciò che essa è, potremmo dire fra forma e contenuto della proposizione, e contraddizioni di questo genere sono del tutto diverse da quelle fra soggetto e predicato; queste ultime potrebbero essere dette contraddizioni analitiche, mentre le altre possono essere definite contraddizioni dialettiche.
Riferimenti bibliografici
Kant Immanuel, Kritik der reinen Vernunft (Critica della ragion pura), 1787