Progetto filosofi – Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche
In questa intervista, il filosofo Vittorio Hösle (Milano, 25 giugno 1960) spiega la concezione dell’etica e dell’estetica che il filosofo tedesco Immanuel Kant (Königsberg, 22 aprile 1724 – Königsberg, 12 febbraio 1804) ha diffusamente trattato nella Critica della ragion pratica (Kritik der praktischen Vernunft, 1788) e nella Critica del giudizio (Kritik der Urteilskraft, 1790)
Qui di seguito la trascrizione integrale dell’intervista.
1. Professor Hösle, nell’etica di Kant è presente una dialettica tra necessità e libertà. Può illustrarcela?
Credo che in effetti in Kant ci sia una certa confusione fra le due cose. Innanzitutto Kant, ritengo a ragione, identifica la libertà con la capacità di agire secondo l’autonomia della ragione, ossia secondo una legge che la ragione dà a se stessa. Per Kant, chi agisce secondo le passioni non è libero, ma eteronomo, in quanto è determinato dalle proprie passioni, motivato dalle strutture esteriori della personalità. Libero è solo colui che agisca secondo il principio categorico, agisce cioè in base a leggi interne alla sua ragione, che la ragione impone a se stessa indipendentemente dall’educazione, dall’indole naturale.
Kant è anche convinto, e qui credo che invece si sbagli, che esista una libertà nel senso che una persona può decidere il suo comportamento senza essere determinata da nessun avvenimento antecedente; questo è ciò che egli definisce libertà trascendentale. Egli pertanto afferma che la morale non presuppone solo la libertà come capacità di agire secondo un principio autonomo della ragione, ma anche la libertà trascendentale. Io credo che queste due forme di libertà, libertà come razionalità e libertà trascendentale, siano due cose radicalmente distinte, e che sia possibile riconoscere una libertà razionale senza accettare la libertà trascendentale: possiamo riconoscere l’esistenza di azioni libere, completamente basate sulla condizione razionale di ciò che dobbiamo fare, ma possiamo egualmente concedere che le persone che le hanno compiute dispongano di un’indole particolare, siano determinate da un certa educazione. Dunque possiamo accettare che l’agente sia determinato da fattori antecedenti, anche se questo non toglie che l’azione, dal punto di vista del contenuto, può essere detta libera per il fatto di rispecchiare certe norme.
Io direi che agisce liberamente chi agisce moralmente, non seguendo le proprie esigenze naturali, ma quelle della propria ragione. Però non escludo che ci sia una causa naturale, fattori esterni o sociali, che lo inducono ad agire in un certo modo. Ci si può chiedere ad esempio perché un criminale agisce in un certo modo: le ragioni possono essere trovate nella sua educazione, nelle condizioni della sua infanzia. Per Kant tali spiegazioni naturali e sociali valgono solo per l’io fenomenico, mentre l’io noumenico decide come agire indipendentemente da tutti questi fattori.
Pertanto quando Kant parla della libertà dell’uomo si riferisce alla sua essenza noumenica, anche se naturalmente ritiene – e qui sorgono nuovi problemi – che chi agisca con la coscienza di farlo secondo il criterio morale sappia immediatamente di agire in modo libero. In questo caso, però, dovremmo avere conoscenza immediata del noumenico, cosa che, secondo la filosofia teoretica di Kant, è impossibile. Poiché da un lato Kant deve limitare la libertà al noumeno, ma dall’altro deve dare all’uomo il senso della sua moralità od immoralità, e dunque l’esperienza del motivo della sua azione, egli è costretto a far rientrare il noumeno nell’autocoscienza fenomenica dell’uomo. Si potrebbe dire che la percezione del proprio agire, nell’intenzione, sarebbe allo stesso tempo una percezione della determinazione del noumeno. Questa è, a mio giudizio, una contraddizione rispetto al dualismo kantiano.
2. La terza grande opera di Kant è la Critica del Giudizio. Perché egli sente il bisogno di proseguire il suo progetto oltre la Critica della ragion pratica, e perché intitola quest’opera proprio Critica del Giudizio?
Nella Critica della ragion pratica Kant aveva individuato uno scopo della nostra vita, un suo significato, che consiste nell’agire secondo l’imperativo categorico. Questo principio categorico non poteva essere fondato in modo naturalistico, ma doveva fondarsi sulla stessa natura della nostra ragione; nell’ambito della filosofia pratica si apriva così un significato, una dimensione teleologica della vita umana che era ancora assente nella filosofia teoretica. Nella Critica del Giudizio, e in particolare nella sua seconda parte, la critica del Giudizio teleologico, Kant ha sviluppato questa dimensione teleologica, che ritiene di poter ritrovare, sulla base dell’esperienza della legge morale, anche nella natura.
Per Kant era importante cercare un superamento del dualismo fra le due parti della ragione, teoretica e pratica. Questo dualismo è uno dei problemi più grandi della filosofia kantiana: l’idealismo tedesco, in pratica, prende spunto dal tentativo di superarlo. Anche Kant avverte questa esigenza, ed è per questo che scrive una Critica dedicata ad una facoltà che egli considera intermedia fra l’intelletto, oggetto della prima Critica, e la ragione, analizzata nella seconda. Il Giudizio è una facoltà intermedia in quanto la sua funzione è quella di mediare il particolare e l’universale, e l’individuazione di una struttura che consenta questa mediazione è l’esigenza fondamentale della terza Critica. Questa struttura è presente per Kant nell’arte, ed all’estetica è dedicata la prima parte della Critica del Giudizio, che è una trattazione del giudizio estetico; la seconda parte tratta del giudizio teleologico, cioè delle strutture finalistiche presenti nel mondo della natura, e specialmente negli organismi.
“Giudizio estetico”, in questo caso, ha lo stesso significato che nel nostro abituale modo di parlare; si tratta della capacità di formulare dei giudizi valutativi, dei giudizi di valore, su ciò che ci sembra bello. Anche qui Kant muove da un critica all’empirismo, altrettanto incapace di fondare l’estetica, per lui, quanto lo è di fondare la morale. Quando noi affermiamo che un’opera, ad esempio un quadro, è bella, non intendiamo dire che ci piace, al modo in cui ci piace una torta, ma il nostro giudizio contiene una pretesa di universalità, di validità anche per altri osservatori. Se qualcuno negasse che questa torta gli piace, non ci sarebbe ragione di preoccuparsi: de gustibus non disputandum est. Ma se riteniamo che un’opera d’arte sia bella, e qualcuno obietta che non gli piace, o ci convinciamo che la sua capacità di giudicarne sia difettosa, o dubitiamo della nostra. Dunque, nel caso del giudizio di gusto, trascendiamo la mera soggettività della sensazione di piacere, la sua contingenza, e ci avviciniamo ad una dimensione in certo modo universale, che non può essere fondata sull’esperienza; dunque anche il giudizio estetico è, per Kant, a priori, e non empirico.
3. Qual è la caratteristica del giudizio estetico rispetto ad altre forme del Giudizio, come ad esempio il giudizio morale?
Kant sostiene che il giudizio estetico si trova in una posizione in un certo senso intermedia fra il giudizio sensibile, sul piacevole e lo spiacevole, ed il giudizio morale. Un giudizio sensibile sulla piacevolezza di qualcosa è puramente soggettivo, e non avanza alcuna pretesa di oggettività, mentre il giudizio morale vale per ogni essere dotato di ragione, in quanto i principi etici, per Kant, sono basati sulla ragione.
Il giudizio estetico vale invece per esseri dotati delle facoltà conoscitive proprie degli uomini, distinte in facoltà dell’intelletto e dell’intuizione, basata sui sensi. Il giudizio sul bello nasce infatti da una certa armonia fra sensi ed intelletto, ed è per questo che altri esseri razionali, dotati di un apparato sensibile diverso dal nostro, ne giudicherebbero diversamente, anche se sarebbero tenuti a riconoscere come moralmente giusti gli stessi atti che noi riteniamo tali. C’è un secondo aspetto che distingue il giudizio di gusto dal giudizio sul piacevole e da quello morale, un aspetto che accomuna invece questi due atti di giudizio: per Kant, quando affermo che qualcosa mi piace in modo sensibile, dimostro un interesse per quella cosa, e lo stesso accade quando formulo un giudizio morale. Anche qui esprimo un interesse per la cosa, sia pure ad un livello più elevato: dicendo che una certa cosa è buona, con ciò stesso auspico che essa venga realizzata, che si trovino persone che si impegnino a farlo. Invece, nel caso del giudizio estetico, il mio compiacimento è, per Kant, esente da interesse: non voglio appropriarmi della cosa ma traggo piacere dall’armonia delle mie facoltà, un atto meramente teoretico che non si manifesta in un’intenzione pratica di possedere l’oggetto.
Kant distingue nettamente il piacevole dal bello: l’oggetto bello esteticamente desideriamo ammirarlo, goderne senza prenderne possesso, mentre nel piacere è incluso il desiderio di possedere, di soddisfare il piacere usando l’oggetto che lo suscita.
Per Kant la bellezza di un’opera non dipende dal contenuto che rappresenta, ma solo dall’armonia che produce nella nostra mente. Questa tesi presenta grande interesse, poiché consente di comprendere meglio lo sviluppo dell’arte moderna, che non si sofferma su dei contenuti, ma gioca con delle forme. L’estetica di Schelling e quella di Hegel, che seguirono immediatamente quella di Kant, sono al contrario delle estetiche materiali, che collegano l’esperienza del bello a contenuti religiosi, o mitologici. Un altro punto da ricordare è il fatto che l’estetica di Kant non ha per oggetto l’arte, ma il bello. L’importanza di questa differenza è rilevante, in quanto per Kant sono belli, ad esempio, gli oggetti naturali, come degli uccellini, o l’arcobaleno, mentre per Hegel l’oggetto dell’estetica non è neppure l’arte bella. Per Hegel, l’estetica deve trattare anche di opere che offendono il senso dell’armonia, il senso del bello: e infatti uno dei suoi allievi più intelligenti, Karl Rosenkranz, ha scritto una Estetica del brutto. Questa concezione è lontanissima dalla mente di Kant, perché per lui l’estetica deve trattare solo di ciò che piace immediatamente: l’idea che l’opera d’arte possa offendere il senso della bellezza per dare un’espressione più alta a certi contenuti, non ha spazio nel sistema dell’estetica kantiana. In questo consiste invece, per me, la superiorità dell’estetica post-hegeliana, che ci consente di comprendere certi sviluppi dell’arte moderna.
4. Professor Hösle, quando si genera dentro di noi il sentimento del bello quali facoltà, secondo Kant, sono coinvolte?
Il sentimento del bello si produce attraverso l’armonia di tutte le facoltà e dunque anche della ragione, e non è riducibile all’esperienza sensibile. Non percepiamo il bello solo attraverso un’immediata sensazione di piacere, ma anche cogliendo un’armonia degli aspetti sensibili che rivestono un’idea della ragione. Dunque fra ragione e bellezza esiste un nesso, anche se la sola ragione non determina la bellezza di un oggetto: si tratta del rapporto armonico fra ragione e sensibilità. Questo recupero del ruolo della sensibilità è la ragione per cui i critici del rigorismo etico kantiano si sono spesso richiamati alla Critica del Giudizio. Schiller, il grande poeta e seguace del kantismo, che assumeva una posizione critica nei confronti del rigorismo di Kant, era affascinato dalla Critica del Giudizio, e molti filosofi hanno visto nel concetto del bello la possibilità di superare gli astratti dualismi della filosofia kantiana, di giungere ad un’armonia fra sensibilità e ragione.
L’armonia tra le facoltà, dalla quale scaturisce il sentimento del bello, non rappresenta in alcun modo per Kant una forma di dovere. Kant non sostiene un dovere morale di riconoscere il bello. Se a qualcuno manca il senso del bello, direbbe Kant, è un peccato per lui, ma non si può dire che abbiamo un dovere di riconoscere il bello. Sicuramente, il gusto estetico è un arricchimento della nostra esistenza, ma nemmeno il coltivarlo è un dovere.
Per coltivarlo è sicuramente richiesta una capacità innata, e Kant si oppone alla teoria per cui l’arte potrebbe essere appresa. Egli ritiene necessario il genio, che è innato, e senza il quale le produzioni artistiche sarebbero impossibili. Per quanto riguarda la fruizione, questa può sicuramente essere coltivata, ma in proposito si deve ricordare una peculiarità dell’estetica kantiana: Kant, a differenza di Schelling, o di Hegel, o, soprattutto, dei teorici marxisti dell’estetica, non ha sensibilità per l’aspetto storico dell’arte. Il bello, per lui, è bello in ogni tempo, e l’idea di un’evoluzione del nostro concetto del bello, e dunque di uno sviluppo dell’arte, gli è estranea. Solo in una frase egli accenna ad un problema del genere, ma non lo ritiene comunque di competenza del Giudizio: l’idea di una storia dell’arte, dello sviluppo del senso artistico, non ha un ruolo nel sistema kantiano.
5. Kant introduce anche una categoria che potremmo dire superiore al bello, quella del sublime. Di che cosa si tratta?
Kant distingue i giudizi estetici in giudizi sul bello e sul sublime; si tratta di una distinzione che non ha grande importanza nell’estetica moderna, ma ne aveva nell’età di Kant, per una ragione storica: uno dei trattati estetici dell’antichità, attribuito a Longino, ma scritto probabilmente già nel primo secolo d. C., era intitolato Peri hypsous, Del sublime. Questo trattato ha esercitato largo influsso nel Rinascimento, dopo che era stato riscoperto e pubblicato nel ‘500, ed è stato discusso anche durante la «Querelle des anciens et des modernes».
I concetti di bello e di sublime divennero quasi opposti, ed è così che già il giovane Kant, richiamandosi a Burke, ha scritto delle Betrachtungen über das Gefühl des Schönes und des Erhabenes, Considerazioni sul sentimento del bello e del sublime. La differenza fra le due categorie consiste nel fatto che, se l’oggetto bello ci piace per l’armonia che ne fa qualcosa di finito, il sublime è qualcosa che ci impressiona perché trascende ogni finitezza. La grandezza del sublime consiste nel negare l’immediatezza del nostro essere, spaventandoci, ed elevandoci così al di sopra dei nostri interessi particolari.
Kant distingue due forme del sublime, in conformità al sistema delle categorie, dove le categorie dei due primi gruppi venivano definite “matematiche”, e quelle degli ultimi due “dinamiche”. Il sublime matematico è quello rappresentato, ad esempio, una montagna imponente, di fronte alla cui enormità ci sentiamo piccolissimi; il sublime dinamico è invece rappresentato, ad esempio, da un mare in tempesta, in cui si scatenano le forze della natura. Noi, per quanto ci sentiamo minacciati da queste forze, consapevoli che non avremmo scampo dalla tempesta, avvertiamo la forza del nostro spirito, che ci rende superiori a queste minacce della nostra esistenza finita.
Kant ha un’interpretazione puramente soggettiva del giudizio estetico: esso non giudica dell’essenza di una cosa, ma solo della nostra recezione di questa cosa. Il sublime è pertanto ancora più soggettivo del bello, sebbene già il bello sia una categoria soggettiva.
Da questo punto di vista, vi è un’importante distinzione fra l’estetica di Kant e l’estetica post-kantiana. Per Kant l’estetica non è scienza dell’oggetto artistico, ma scienza della recezione che ne abbiamo. Potremmo distinguere tre tipi di estetica: un’estetica che analizza la produzione artistica, una che analizzi l’oggetto artistico in se stesso, ed una che ne analizzi la recezione. L’estetica di Kant è sicuramente un’estetica della recezione, anche se contiene riflessioni sulla produzione dell’opera d’arte. Ma riflessioni sulla struttura e sull’ontologia dell’opera d’arte mancano.
6. Nella Critica del Giudizio Kant afferma che, in assenza di esseri ragionevoli, la natura sarebbe un inutile deserto. Da dove sorge per Kant l’essere pensante? È anch’egli un prodotto, anche se casuale, della natura, o è qualcosa di altro, di diverso ed incommensurabile rispetto alla natura?
Per Kant l’uomo è qualcosa che trascende il sistema della natura, in quanto può porsi il problema morale; e poiché il problema morale non può essere affrontato su una base empirica o naturalistica, l’uomo ci rivela qualcosa che va al di là della natura. Per quanto riguarda la genesi dell’uomo, Kant non esclude una sua origine naturale; anche se non tratta a fondo del problema, non si può dire che escluda senz’altro questa ipotesi. Questo è del resto il problema di tutta la seconda parte della Critica del Giudizio, la questione se esistano o no strutture teleologiche, e, soprattutto, se queste strutture teleologiche siano o no riconducibili a cause meccaniche. La soluzione scelta da Kant è conforme al soggettivismo della prima Critica: egli dichiara possibile considerare la natura come se tutto fosse riducibile alla causalità meccanica, ed allo stesso tempo analizzare la strutture teleologiche che osserviamo, come gli organismi. Le due massime del Giudizio sono compatibili, poiché hanno un carattere regolativo, e non determinano ontologicamente gli oggetti. Non affermiamo né che le strutture teleologiche siano riducibili a quelle meccaniche, né che non lo siano; diciamo che dobbiamo osservare le forme teleologiche che conosciamo, e tentare di spiegarle secondo leggi puramente meccaniche, anche se Kant ritiene che questo compito non potrà mai essere esaurito. È nota l’immagine di cui si serve, affermando che non esisterà mai un Newton in grado di spiegare meccanicamente la struttura di un filo d’erba.
Questo discorso vale anche per l’uomo. Per Kant l’uomo è “cittadino di due mondi”, in quanto da una parte è, per la sua natura sensibile, un oggetto della natura, che obbedisce alle leggi che regolano il mondo naturale; e non solo nel corpo, ma anche nel suo io fenomenico egli obbedisce, ad esempio, al principio di causalità; ma allo stesso tempo, essendo anche un noumeno, grazie alla possibilità di agire secondo l’imperativo categorico, è anche cittadino del mondo intelligibile, del mondo delle idee.
Il problema per Kant è dato proprio dalla convinzione che l’io fenomenico, anche nell’uomo, è soggetto al principio di causalità. Per rendere conto della libertà, intesa come libertà di determinarsi indipendentemente da ogni influenza da parte dell’ambiente, dell’educazione, Kant deve ricorrere al concetto di un io intelligibile, che ci consente di scegliere fra il bene ed il male.
Per lui l’io intelligibile è ciò che è in grado di decidere se agire secondo la morale o no. Il problema, naturalmente, è che, come abbiamo detto, il concetto di noumeno o cosa in sé è problematico, in quanto è il concetto di qualcosa che non è categorizzato. Credo che questo concetto di qualcosa che si trovi al di là della struttura delle categorie sia inconsistente, in quanto, per descriverlo, dobbiamo comunque ricorrere alle categorie; dicendo che non obbedisca a regole, introduciamo la categoria della negazione, e così via. Ma se respingiamo la distinzione kantiana fra io fenomenico e io noumenico diventa anche molto difficile accogliere la sua dottrina del libero arbitrio.
Infatti, il principio dell’etica si fonda proprio su di un atto che trascende la determinazione naturale, e che scaturisce dall’essenza della ragione, e non da realtà empiriche.
7. Kant si è occupato relativamente poco del mondo della storia. Qual era la sua concezione degli eventi umani, dal punto di vista storico?
Egli riteneva che la storia fosse il processo di realizzazione di un’idea del diritto. Anch’egli concepiva, pertanto, lo sviluppo storico come un processo che tende a realizzare l’idea dello stato giusto. Anche se le sue analisi hanno un forte carattere programmatico, non si può dire che esse, come quelle di Hegel, scendano nei dettagli del meccanismo che regola la storia. Se pure questo è assente in Kant, non c’è dubbio che egli ritenesse che i progressi dello stato di diritto sono il criterio in base al quale possiamo parlare di progresso storico, e che tenesse fermo al concetto di progresso. Kant ha anche tentato, nei suoi brevi scritti di filosofia della storia, un’analisi razionale del mito della caduta dell’uomo narrato dal Genesi. Ai suoi occhi, questa caduta indica l’uscita dell’uomo dall’immediatezza della natura, per giungere nello stato in cui opera la scelta del bene e dal male; questo conduce, da un lato, alla libertà, dall’altro ad un’alienazione dalla natura. È molto interessante osservare come Kant tenti un’interpretazione razionale non solo di questo mito, ma anche di altre storie bibliche, nell’intento di ricondurle alla propria filosofia della storia.
In Kant nulla indica che il conseguimento dello stato ideale sia certo; si tratta di una fede, ma Kant negherebbe che essa possa essere considerata come un sapere certo.
Si pensi, ad esempio, allo scritto Sulla pace perpetua. In esso mi sembra si possa rintracciare una grande componente di realismo. Kant vede come la pluralità degli stati sia un fatto in contraddizione con l’idea di diritto, per la semplice ragione che i rapporti fra gli stati possono essere regolati solo in base al diritto del più forte. E credo del resto che l’argomento hobbesiano, per il quale è ragionevole uscire dallo stato di natura, trovi applicazione anche nei rapporti fra gli stati. Viviamo in un secolo in cui è divenuto manifesto che i principali problemi possono essere risolti solo su un piano internazionale – si pensi ai problemi ecologici, ma anche all’interdipendenza delle varie economie statali, tale che la sfera delle decisioni economiche non coincide affatto, oggi, con quella dell’influsso di un singolo stato -, e credo che, data questa situazione, uno degli obiettivi storici debba essere quello di giungere quanto meno ad una confederazione universale degli stati, e che Kant avesse ragione ad indicare questo come uno degli scopi principali della storia. Naturalmente, possiamo concedere che Kant fu troppo ottimista nel credere che una tale idea potesse essere realizzata in termini brevi; sicuramente, anche oggi sarebbe ingenuo ritenere che questa idea possa essere realizzata in maniera democratica, lasciando che gli stati deleghino spontaneamente i loro diritti sovrani ad una confederazione; questo accadrà solo per gli stati più potenti, le superpotenze, che tenteranno, spero, di collaborare per risolvere problemi regionali. Io credo che, per la sopravvivenza dell’umanità, non ci sia alternativa ad un organismo statale universale.
L’aspirazione di Kant non era certo mediata con la realtà dei suoi tempi. Ma posta a confronto con quella di Hegel, la cui teoria dei rapporti interstatali è interamente basata sul criterio del più forte, la dottrina di Kant rappresenta senz’altro un progresso. Hegel cade nel realismo cinico di accettare i rapporti di fatto come l’unica possibilità, e crede che l’idea di uno stato universale non sia solo irrealizzabile a breve termine, ma in se stessa assurda ed incompatibile con l’idea del diritto, là dove direi con Kant che essa deriva dall’idea del diritto.
8. A differenza di Kant, si può dire che in Hegel, da un punto di vista politico, non si ha mai un superamento del conflitto.
È così: per Hegel la guerra è un momento necessario del mondo politico. In questo Hegel ricorda, in un certo senso, Carl Schmitt, che nel nostro secolo ha definito il fatto di pensare secondo le categorie di amico e nemico come la caratteristica del politico; per Schmitt uno stato universale distruggerebbe proprio l’essenza della politica. Ma credo che questa concezione del politico sia sbagliata. Il politico deve essere una categoria che tenti di conciliare i vari aspetti, economici, culturali, religiosi, della nostra esistenza, e credo che sia meglio legittimato da questa capacità di integrare le forze contrastanti che dall’opposizione verso l’altro. Del resto, se Schmitt avesse ragione, dovremmo dire che anche i rapporti di inimicizia personali dovrebbero essere classificati come politici.
D’altra parte, se l’essenza del politico non consiste nel suo carattere pubblico, ma nella struttura di opposizione ad un altro sistema, allora credo che si possa dire che già nei rapporti privati degli individui si troverebbe in nuce la struttura politica, e solo per ragioni contingenti, perché si tratta di individui, e non di entità più potenti e più complesse, non possiamo parlare di rapporti politici. Se l’essenza del politico è nel rapporto conflittuale, credo che dovremmo dire che le inimicizie personali sono quanto meno forme deficienti del politico.
9. Hegel considera Kant un illuminista, sia perché si trova ancora all’interno di una filosofia del finito, sia perché è fermo ad una morale del dover essere, in antitesi alla sua filosofia dell’infinito e della necessità. Quanto c’è di giusto in questa critica? In che misura l’idealismo kantiano è superato da quello hegeliano?
Credo che il maggior limite della filosofia di Kant sia, dal punto di vista fondativo e teoretico, l’incapacità di fondare se stessa. Kant riflette sulle condizioni di possibilità dell’esperienza, ma non sulle condizioni di possibilità della sua stessa riflessione sull’esperienza; non tenta di sviluppare una teoria della conoscenza filosofica, ma solo una teoria della conoscenza scientifica. Già con Fichte la filosofia trascendentale diventa riflessiva, riflette cioè su se stessa; ma il maggiore limite della filosofia di Kant, dal punto di vista teoretico, è proprio quello di non aver raggiunto questa struttura riflessiva, il che implica il rimanere nell’ambito del finito, poiché l’assoluto è necessariamente contraddistinto da strutture riflessive. Un secondo problema della filosofia kantiana consiste nel dualismo fra fenomeno e noumeno, un dualismo che si presenta come inconsistente, in quanto sul noumeno non possiamo affermare nulla, nemmeno che non possiamo dirne nulla, perché con questo restiamo comunque nei limiti delle categorie. Per quanto riguarda la filosofia pratica, infine, si ha il problema dell’assenza, in Kant, di una teoria dell’intersoggettività, ciò che conduce alla sua etica dell’interiorità, della coscienza, e non ad un’etica della responsabilità. Quanto al rimprovero di Hegel, di essere troppo legato al dover essere, credo che in un certo senso Kant abbia ragione: il dover essere non è riducibile all’essere, anche se possiamo ammettere che nel mondo così come è sia realizzato molto di ciò che il dover essere esprime normativamente: infatti, la normatività di questi criteri non deriva dal fatto che si siano realizzati. Questo è qualcosa che anche Hegel riconoscerebbe: egli non è un sostenitore del diritto della forza, almeno nella parte più importante della sua teoria del diritto e della politica. Hegel non ritiene che la legittimazione di una norma venga dal fatto che essa è realizzata, ma, al contrario, che la sua legittimità è ciò che ne determina la graduale realizzazione nella storia.
Hegel ha più fiducia nelle istituzioni di quanta ne abbia Kant; per Kant l’agire morale è superiore all’agire istituzionalizzato, mentre per Hegel vale il contrario. Questa è una differenza importante, che rispecchia la svolta verso l’idealismo oggettivo. Non è la soggettività ad offrire garanzie su se stessa, ma la sua oggettivazione in istituzioni intersoggettive è, per Hegel, superiore.
10. I positivisti apprezzarono Kant per aver circoscritto la realtà conoscibile al mondo dei fenomeni; ma anche Schopenhauer lo esaltò come la mente più originale che sia mai stata prodotta dalla natura. A cosa si deve questo riconoscimento, da punti di vista così differenti, della grandezza di Kant?
La grandezza della filosofia di Kant consiste proprio nel fatto di essere il punto di partenza per filosofie così differenti, nella sua capacità di offrire una sintesi, a mio giudizio inconsistente, ma comunque reale, di empirismo e razionalismo. La filosofia di Kant è, come è stato detto, una metafisica dell’esperienza, ma Kant sapeva che per fondare l’esperienza è richiesta una base che non sia empirica, anche se questa base svolge la sua funzione solo se venga sempre mantenuta in contatto con l’esperienza. A Kant possono riferirsi tanto gli empiristi, che possono sostenere che ad interessarlo fu proprio l’esperienza, quanto i razionalisti idealisti, per i quali la filosofia inizia proprio con l’elevarsi della ragione sopra l’empirico, verso la sfera dello a priori.
Anche i fenomenologi hanno riconosciuto a Kant il merito di accettare la finitudine senza ricorrere a garanzie metafisiche. Anche la fenomenologia è tributaria di Kant. La fenomenologia, dopo la svolta trascendentale di Husserl, si rivolge verso un indirizzo dualistico-soggettivo, ma la sua base è l’analisi della coscienza, lo stesso punto di partenza di Kant. Kant esamina il funzionamento della coscienza finita dell’uomo, non vuole elevarsi ad una conoscenza dell’assoluto, del principio del reale, ma mira a descrivere la funzione delle nostre capacità conoscitive. Sulla base di questa analisi intende fondare il mondo fenomenico, non il mondo nella sua vera essenza.
Infine, anche il materialismo storico ha tentato, con alcuni epigoni, di coniugare Marx con Kant. In un certo senso, anche questo è possibile, in quanto il marxismo prosegue degli orientamenti naturalistici che sono presenti anche nella filosofia kantiana: Kant, per quanto riguarda il mondo fenomenico, è strettamente materialista e naturalista. Nel marxismo è presente anche uno sviluppo degli aspetti illuministici ed umanistici della filosofia kantiana: anche per il marxismo la realizzazione del diritto è uno dei compiti più importanti della storia. Rimane però una differenza fondamentale, il fatto che il marxismo non offra una teoria sufficiente della conoscenza apriorica. La grandezza di Kant è consistita proprio nel porre la questione della possibilità di una conoscenza che non si basi sull’empiria. Il marxismo non si è posto questa domanda, nonostante i suoi principi non siano affatto ricavati dall’esperienza, ma siano proposizioni a priori: soltanto, esse non sono affatto fondate.
Riferimenti bibliografici
Kant Immanuel, Critica del giudizio, trad. di Alfredo Gargiulo, Bari, Laterza, 1907; trad. rivista da Valerio Verra, Laterza, 1960; con Introduzione di Paolo D’Angelo, Laterza, 1997.
Kant Immanuel, Critica della ragion pratica, trad. Francesco Capra, Bari, Laterza, 1909; revisione della traduzione di Eugenio Garin, Glossario e Indice a cura di Vittorio Mathieu, Laterza, 1971; Introduzione di Sergio Landucci, Laterza, 1997.