Progetto filosofi – Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche
Francesco Valentini (Cosenza, 1924 – Roma, 2009) è stato Professore ordinario di Filosofia Teoretica all’Università La sapienza di Roma. In questa intervista ci spiega La fenomenologia dello spirito di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (Stoccarda, 27 agosto 1770 – Berlino, 14 novembre 1831), un’opera pubblicata per la prima volta nel 1807. Lo scopo dell’opera hegeliana è quello di superare la logica aristotelica attraverso la teoria logica della dialettica hegeliana.
Qui di seguito il testo dell’intervista integrale
Professor Valentini perché leggere Hegel oggi? Qual è la sua attualità?
Indubbiamente Hegel è un interlocutore essenziale del pensiero contemporaneo; direi che assieme a Kant è oggi uno dei due interlocutori essenziali, come in altri tempi lo erano Aristotele e Platone. Qualcuno ha addirittura detto che tra Hegel e Kant bisogna scegliere; non so se la cosa sia del tutto accettabile. In ogni modo chi si rivolge a Hegel pone l’accento su una attitudine che potrebbe dirsi – e il termine è hegeliano -, di conciliazione con il mondo. È l’attitudine di chi in un certo senso può dire che si trova bene nel mondo, e ritiene che appunto il mondo, la storia, siano l’unico orizzonte del suo pensare e del suo fare. Chi si rivolge di più a Kant pone invece l’accento sulla problematicità, sull’incompiutezza, direi persino sul mistero.
Proprio per questo la maggior parte del pensiero contemporaneo, che è problematica e relativistica, considera Hegel certamente un interlocutore importante, ma anche un idolo polemico. Gli si rimprovera di avere teorizzato questa attitudine tranquilla, ma anche di avere teorizzato un sapere compiuto, senza ulteriorità, un sapere che Hegel stesso ha definito assoluto. Di fronte a questo sapere assoluto il filosofo dell’ermeneutica per esempio, e penso in particolare a Gadamer, obbietta che si tratta di una illusione perché qualsiasi sapere ha sullo sfondo un orizzonte di non detto e di non saputo. Ma anche un filosofo che probabilmente tra i contemporanei è quello più direttamente influenzato da Hegel, Erich Weil, diceva, specialmente nell’ultima fase del suo pensiero in cui si faceva sentire l’influenza di Kant, a cui ha dedicato alcuni saggi importanti, che il sapere assoluto è in sostanza un’illusione.
Hegel afferma che “l’assoluto è presso di noi”. In termini semplici, cosa significa questa espressione di Hegel?
Hegel afferma proprio: “l’assoluto è presso di noi”, come correlativamente parla di “sapere assoluto”. I suoi obiettori invece ritengono che questa presenza totale dell’assoluto sia un’illusione. Io direi che questo è un caso dei più interessanti nella storia della critica filosofica, e aggiungerei, con tutta modestia, che si tratta di un interessantissimo fraintendimento. Si è ritenuto cioè che l’assoluto hegeliano, o il sapere assoluto hegeliano, che appunto è fra noi, sia qualcosa di definitivo e attesti la possibilità per l’uomo di conoscere in maniera certa, di escludere quello che comunemente si chiama il fallibilismo. In realtà si tratta di tutt’altra cosa. Se noi pensiamo ai testi più tipici di Hegel in questo senso, per esempio alle pagine finali della Fenomenologia dello spirito, noi ci accorgiamo che questo sapere assoluto è quanto di più storico si possa immaginare. In sostanza che cosa è il sapere assoluto, e che vuol dire che l’assoluto è fra noi? Il sapere assoluto è un’attitudine che segue a determinati fatti storici, e cioè alla Rivoluzione francese e alla situazione post-rivoluzionaria, in particolare napoleonica.
Secondo Hegel dopo questi avvenimenti l’uomo si è emancipato dalla paura di un oggetto che lo trascende e ha preso coscienza del fatto che le operazioni della sua ragione sono delle operazioni legittime, cioè che la ragione ha in sé la sua misura. Questo non significa – ed è ovvio – che la ragione non possa sbagliare, ma significa soltanto che non ha altra misura fuori di sé per valutare l’eventuale errore.
Per quanto concerne l’espressione, che potrebbe suonare metafisicizzante, secondo la quale “l’assoluto è fra noi”, quest’espressione significa che le concezioni che fino a Hegel si sono avute dell’assoluto come di un qualcosa di non interamente dominabile dall’uomo, ormai sono comprese e, essendo comprese, liberano l’uomo dal timore che ci possa essere un qualcosa, un assoluto che lo trascenda o addirittura in qualche modo lo minacci. L’assoluto è fra noi, ma non per questo l’assoluto è compiuto; è cioè compiuta una concezione errata dell’assoluto, ma il sapere è un sapere sempre totalmente aperto.
Ma questo risultato è il frutto di un processo storico, di una cultura, che poi è quella nel cui contesto vive Hegel?
Questo risultato è il frutto della cultura post-illuministica. Hegel è critico dell’Illuminismo, ma in quanto vede in esso un’emancipazione parziale dell’uomo; è critico dell’Illuminismo perché egli vuole un sapere che sia più certo e più consapevolmente certo del sapere illuministico; è polemico, in questo senso, nei confronti di ogni forma di agnosticismo. Ma se noi pensiamo proprio alla sua stessa sistematica, vale a dire a quella che descrive alla fine della Fenomenologia, ci accorgiamo in che cosa consiste questo valore liberatorio del sapere assoluto.
In sostanza Hegel afferma che a un certo punto, e precisamente dopo la Rivoluzione francese, con l’assetto napoleonico, l’uomo è libero. L’uomo, cioè, non pensa che l’oggetto sia problematico, e che quindi possa essere in qualche modo, in linea di principio, ingannato, per esempio dai sensi che possono errare; l’uomo ha in sé il suo criterio di verità. Per Hegel l’uomo si è allora liberato dall’oggetto, cioè dalla trascendenza dell’oggetto, e potrebbe, nel linguaggio di Hegel, “far scienza”.
Quando si dice “far scienza” nel linguaggio di Hegel, significa non pensare più secondo lo schema di un soggetto e di un oggetto, ma ripensare le proprie esperienze a un livello più alto di astrazione, cioè pensare per categorie astratte, per categorie logiche; pensare per esempio in termini di “essere determinato”, di “essere quantitativo”, di “fondamento”, di “giudizio”, che sono categorie astratte, categorie logiche. Categorie logiche che definisco “astratte”, ma non nel senso limitativo di questo termine; si potrebbero anche definire “superconcrete”, nel senso che queste categorie racchiudono un’esperienza.
Giunto però a questo punto, anziché scrivere questa scienza e questa logica, secondo Hegel è il caso di ripensare il cammino percorso; e allora scrive la Fenomenologia dello spirito, nella quale si descrivono le esperienze più importanti che hanno portato a questa emancipazione dell’uomo. Giunto alla fine del cammino fenomenologico c’è la possibilità di scrivere la Logica, a cui poi seguono le scienze reali, la filosofia della natura e la filosofia dello spirito, e cioè delle filosofie in cui le categorie logiche si cimentano con le scienze naturali e con le scienze storiche. Alla fine di questo percorso l’uomo raggiunge di nuovo la purezza del sapere filosofico, cioè di nuovo la logica. Quindi il cerchio può ricominciare ad esser percorso.
Questo cerchio però non è immobile. Giunto a questo punto io potrei riscrivere la Fenomenologia, ma potrei anche scrivere una diversa fenomenologia: in altri termini l’oggetto come tale certamente è da me conosciuto, ma è inesauribile, non è mai definitivamente conosciuto. Quindi il cammino potrebbe ricominciare anche eventualmente con un’interpretazione diversa da quella che ha dato Hegel. Se questo è vero, e direi che i testi sono inequivocabili, allora nulla è più ermeneutico del sapere assoluto hegeliano, e le preoccupazioni di Gadamer mi sembrano infondate.
Hegel diceva di appartenere a un’epoca di passaggio, un’epoca cioè che preannunciava una nuova era. Qual è il contesto storico in cui si inserisce la riflessione di Hegel? E in cosa consiste quella che Hegel stesso chiama “la nuova figura dello spirito”?
Hegel dice effettivamente che noi ci troviamo in un’epoca di passaggio, di transizione, nel senso di un’epoca che ormai ha fatto i conti con l’autorità della tradizione; quindi anche in un’epoca della ragione. Da questo punto di vista Hegel è in piena sintonia con l’Illuminismo; basti pensare al giudizio entusiastico che lui dà di Federico II, considerato come il re filosofo, il re riformatore, della razionalizzazione delle istituzioni. In questo senso dunque è eminentemente un’epoca di progresso, cioè un’epoca in cui la ragione, che già ha preteso di legiferare con la Rivoluzione francese, è ormai dominante.
Ma altrove, in un’altra occasione, Hegel parla anche di un periodo nuovo, nel senso di un periodo in cui lo spirito, cioè l’uomo, ormai può pensare a sé, cioè può raccogliersi nella sua interiorità, dopo un periodo in cui è stato occupato al di fuori. Qui Hegel chiaramente allude – poiché il testo a cui penso è del 1818 – al periodo delle guerre napoleoniche. Dopo questo periodo di guerre, in cui si è volto fuori di sé, lo spirito si può raccogliere in sé, può cioè operare nel senso più razionale possibile. Operare nel senso più razionale possibile significa fare le riforme di Federico II, ma significa anche, come Hegel dice alla fine delle sue Lezioni sulla storia della filosofia, intervenire sulla realtà secondo i bisogni del tempo.
Da questo punto di vista Hegel indica perciò un’azione che egli vuole il più possibile razionale. Ma non bisogna dimenticare che questa è un’istanza di razionalità presentata da un filosofo che però ha sempre messo in evidenza il rischio connesso con l’azione. Abbiamo perciò per un verso una azione che si vuole, che deve essere il più razionale possibile, e per un altro verso però anche la consapevolezza del rischio che qualsiasi azione porta con sé.
L’affermazione che il vero è l’intero, e quindi che la verità è il suo sistema scientifico, in sostanza significa qualcosa che oggi viene indicato di solito in senso peggiorativo, e cioè che pensare è totalizzare. Se io penso un qualcosa, per pensarlo correttamente devo pensarlo in un contesto, cioè devo pensarlo in un quadro d’insieme da cui questo qualcosa riceva significato. C’è sempre un quadro di riferimento ineliminabile quale che sia la mia asserzione; qualsiasi mio pensiero ha questa struttura, per la quale è ricompreso in una totalità significativa.
In questa prospettiva tutto trova una giustificazione, ma giustificazione naturalmente non significa accettazione di qualsiasi contenuto. È inutile ricordare che lo storicismo hegeliano è il risultato di una lettura della storia estremamente selettiva: Hegel sceglie gli avvenimenti che secondo lui sono più significativi. Gli avvenimenti più significativi sono poi quelli che hanno contribuito alla presa di coscienza della vera essenza dell’uomo: quella di un essere capace di libertà.
Nell’Introduzione alla Fenomenologia Hegel, in polemica soprattutto con Kant, afferma che la filosofia non ha bisogno di preamboli o di introduzioni metodologiche. Come si concilia questa posizione con l’idea della fenomenologia come propedeutica alla scienza?
Io direi che a stretto rigore la Fenomenologia non dovrebbe essere considerata propedeutica alla scienza, perché, come del resto si legge nel titolo originale e originario dell’opera, è piuttosto la prima parte del sistema. Non c’è perciò una propedeutica a cui segue la scienza, e la Fenomenologia è già scienza.
Se consideriamo la Fenomenologia, noi vediamo che è la descrizione di una serie di esperienze che hanno carattere liberatorio. Hegel dice anche che la Fenomenologia è “la scienza dell’esperienza della coscienza”, e quando si dice “coscienza” si vuol dire che c’è un atteggiamento che presuppone la coscienza da una parte e l’oggetto dall’altra. La “scienza dell’esperienza della coscienza” descrive una lunga esperienza attraverso la quale questo “due” viene superato. Però la descrizione di questa esperienza – non questa esperienza stessa, ma la sua descrizione – per Hegel è già scienza. Alla fine della Fenomenologia c’è la possibilità di fare la scienza pura, cioè di scrivere la logica; ma da questo punto di vista la Fenomenologia non è considerata come una introduzione, ma, caso mai, come la descrizione di alcune esperienze dal cui superamento nasce la possibilità di far scienza.
Professor Valentini può sintetizzarci l’itinerario fenomenologico descritto da Hegel?
In una prima parte, nei primi tre capitoli, si parla di esperienze di tipo conoscitivo; sono le esperienza della certezza sensibile, della percezione e dell’intelletto. Hegel descrive le varie maniere in cui queste esperienze sono state fatte, e anche come sono state interpretate dai vai filosofi: si trattano quindi problemi inerenti alla dottrina della conoscenza.
Dopo questa parte Hegel si occupa invece di esperienze di tipo pratico: descrive l’uomo nella sua situazione primitiva, l’uomo che a stretto rigore non è ancora uomo, che si trova nel mondo, si trova con gli oggetti che gli stanno intorno e si nutre di questi oggetti. A questo livello l’uomo soddisfa il suo appetito, ma ad un certo punto ha l’esigenza di andare oltre questa sua coscienza dell’oggetto, ha l’esigenza che la sua certezza diventi verità; questo significa bisogno di riconoscimento. L’uomo scopre che non è solo nel mondo, che ci sono anche altri uomini, e allora vorrebbe che questi altri riconoscessero la sua verità, che facessero cioè della sua verità anche la loro. Nasce da ciò la cosiddetta “lotta a morte”, che è molto celebre nella descrizione hegeliana: io cerco di sottomettere l’altro, perché l’altro mi riconosca. Questa lotta a morte ha come risultato una situazione di signoria-servitù: il vincitore della lotta è il signore, e il soccombente è il servo. È questa una situazione dialettica, nel senso che il servo ha dei vantaggi grazie alle esperienze che è venuto facendo – la paura della morte e il lavoro – e che il signore non fa. Dopo queste esperienze, Hegel descrive la presa di coscienza di questa situazione attraverso l’esame di alcune filosofie: lo stoicismo, lo scetticismo e la religiosità cristiana, che egli chiama “coscienza infelice”. Queste filosofie rispecchiano la situazione imperfetta del servo: il servo è appunto servo, cioè non è autonomo, ma riconosce se stesso nel signore. Questo lo porta a ideologie nelle quali o la verità è puramente astratta, come nello stoicismo, o è lontana, come nello scetticismo, o è trascendente, come nel cristianesimo o coscienza infelice. Il risultato di questo cammino è però un risultato ancora una volta positivo: nell’esperienza ultima della coscienza infelice, nell’appartenenza del credente ad una Chiesa, si ha un atteggiamento di pura sottomissione. Il credente, infatti, è completamente sottomesso alla Chiesa, è addirittura nella condizione di chi non intende quello che dice il sacerdote. Però questa esperienza, apparentemente così umile, è per Hegel emancipatrice, perché è una sorta di propedeutica alla ragione; attraverso questa esperienza, infatti, ci si accorge che la propria persona in un certo senso conta poco, che deve essere intesa all’interno della ragione. Segue allora l’altra parte della Fenomenologia che appunto è dedicata alla ragione.
Hegel esamina la ragione scientifica – la “ragione osservante”, come egli dice -, vale a dire la ragione che fa scienza e, per un altro verso, la ragione che opera, la ragione attiva. Qui prende in esame alcune forme individualistiche, di un individualismo di tipo romantico, per esempio l’atteggiamento del brigante buono di Schiller, per poi concludere che questi atteggiamenti sono degli atteggiamenti superati da un’attitudine che possiamo ben chiamare storicistica: questi atteggiamenti, o queste pretese, dell’individuo vengono poi ricomprese nell’ambito di un corso del mondo, in una “cosa stessa”, come anche Hegel dice, vale a dire nella storia. Allora l’individuo si scopre come interno alla storia, cioè come ente eminentemente storico, e, attraverso questo, scopre che l’uomo è quel che fa, che è la serie delle sue azioni: sono le azioni a spiegare il singolo, non il singolo a spiegare le azioni.
Finito l’itinerario della ragione, segue una parte della Fenomenologia in cui ci si occupa dello spirito. Hegel descrive esperienze non più del singolo, ma esperienze storiche, descrivendo così quello che lui chiama lo spirito. Hegel si riferisce a momenti della storia come il mondo greco o il mondo romano; accenna al Rinascimento, al Medioevo; produce analisi del Razionalismo, dell’Illuminismo, della Rivoluzione francese, della filosofia classica tedesca, che secondo lui interpreta in modo retto le conquiste della Rivoluzione francese. In questa parte della Fenomenologia Hegel esamina dunque quei momenti essenziali che hanno contribuito a determinare ciò che l’uomo è; esamina una cultura, quella cultura che secondo lui ha dato come risultato l’avvento pieno della ragione. Dopo di che Hegel ritorna in certo senso un po’ indietro e fa vedere le esperienze culturali che si sono venute facendo in concomitanza con la storia propriamente detta.
Apriamo così il capitolo sulla religione. Hegel esamina varie forme di religione: la religione prevalentemente orientale, la religione greca e la religione cristiana che è la più importante e la più vicina alla ragione e alla filosofia. La religione è interpretata qui non tanto come esperienza religiosa, quanto come teologia, vale a dire come tentativo, ancora su un piano rappresentativo, non puramente razionale, di spiegare la realtà. Alla fine di questo percorso, con il cristianesimo, noi raggiungiamo il sapere assoluto.
L’ultimo capitolo della Fenomenologia presenta un’attitudine in cui la religione stessa viene compresa e si tratta del sapere assoluto, che è il risultato di una piena comprensione della religione e quindi della teologia, ed è conquista della ragione.
Come è noto la scrittura filosofica di Hegel è particolarmente oscura ed ardua, anche perché il suo è un pensiero che intende superare la fissità dei termini per risolverla in un movimento dialettico: pensare per verbi, potremmo dire, e non per nomi. Professor Valentini, per misurarci con il modo di argomentare di Hegel, possiamo prendere in esame un paio di figure fenomenologiche?
Possiamo prendere in esame un paio di figure tra le più note. Penserei alla famosa lotta signore-servo e eventualmente, anche perché mi pare molto significativo per il nostro discorso, a quello che Hegel pensa della Rivoluzione francese.
Ricordiamo allora la genesi della lotta tra il signore e il servo. Qualcuno ha detto che questa lotta a morte è una lotta di puro prestigio. Veramente direi che il vero movente della lotta, hegelianamente, è più razionale: è cioè l’esigenza di una certezza che diventi verità. L’uomo si trova di fronte alle cose, ma si trova di fronte anche all’altro uomo. I due uomini lottano perché ciascuno di essi desidera che l’altro lo riconosca, gli sia sottoposto. Questa lotta è una lotta a morte, e a un certo punto uno dei due combattenti ha paura della morte e si sottomette e quindi riconosce il vincitore, riconosce l’altro. Abbiamo perciò da una parte il signore che si è emancipato dalle cose, si è emancipato dalla natura perché non ha avuto paura di morire, e dall’altra il servo, che invece è rimasto legato alla natura proprio perché ha temuto di morire. Abbiamo quindi una situazione ineguale: da una parte il signore, dall’altra parte il servo. A questo punto però Hegel sottolinea che il servo fa due esperienze essenziali che il signore non fa. La prima è l’esperienza della paura della morte: il servo trema – dice Hegel – “in tutte le sue fibre”, cioè non ha una paura particolare, ma ha paura di morire, di non essere. Questa paura è liberatrice, nel senso che il servo sperimenta il suo poter non essere, e quindi sperimenta quella che per Hegel è una caratteristica dell’uomo, cioè la cosiddetta negatività: la possibilità di dire la propria negatività, e anche di imprimere la propria negatività e il proprio fare alle cose. L’altra esperienza che il servo fa e il signore no è quella del lavoro: il servo lavora per il signore e porta al signore i frutti del suo lavoro. Questa esperienza è anch’essa essenziale, perché il servo lavorando imprime se stesso all’oggetto: il suo lavoro traspone nell’oggetto la sua personalità. Così il lavoro – anche se servile, anzi, proprio perché servile -, ha una funzione liberatrice: l’uomo diventa uomo lavorando, formando l’oggetto e formando attraverso ciò se stesso.
Leggo due righe di un testo hegeliano che mostra in che senso queste due esperienze sono inscindibili e sono egualmente importanti: “Per tale riflessione” – sto leggendo un passo della Fenomenologia – “son necessari entrambi questi momenti: sia la paura e il servizio in generale, sia il formare;”- (il formare sarebbe il lavorare) – “e necessari tutti e due in guisa universale. Senza la disciplina del servizio e dell’obbedienza la paura resta al lato formale e non si riversa sulla consaputa effettualità dell’esistenza. Senza il formare la paura resta interiore e muta, e la coscienza non diviene coscienza per lei stessa” (p.163 I vol.). Il testo è molto importante perché fa vedere la stretta connessione che c’è tra le due esperienze: senza la disciplina del servizio, la paura della morte diventerebbe qualcosa di astratto. Se il servo sperimenta la possibilità di poter morire, sperimenta anche la propria possibilità di esser libero, e allora attraverso il lavoro traspone nell’oggetto non una sua tecnica, cioè una sua capacità di lavorare l’oggetto, ma se stesso; egli oggettiva, cioè, quello che nella paura della morte era semplicemente soggettivo. Se il servo lavorasse senza la paura della morte, avrebbe l’esperienza della sua abilità, della sua capacità di trasformare l’oggetto, ma non oggettiverebbe la propria libertà. Quindi entrambe queste esperienze sono essenziali come fattori di emancipazione del servo, dell’uomo. Tuttavia questa emancipazione non è completa, perché il servo rimane servo. Egli infatti, pur facendo queste esperienze importanti ed essendo in questo senso “più vincitore” del signore perché più veramente uomo, non è tuttavia ancora libero; le filosofie dello stoicismo, dello scetticismo e del cristianesimo esprimono questa imperfetta coscienza. Ora però Hegel ritiene – e lo dice anche esplicitamente nell’Enciclopedia – che con lo Stato moderno, almeno in linea di principio, si superi la situazione di signoria-servitù, si raggiunga, cioè, una situazione di reciproco riconoscimento: ciascuno è nello stesso tempo signore e servo dell’altro.
L’altra figura fenomenologica a cui possiamo pensare è quella della Rivoluzione francese. Può descrivercela?
Hegel ne parla abbastanza a lungo nella Fenomenologia. La Rivoluzione francese per Hegel è la manifestazione di quella che egli stesso chiama la libertà assoluta, con una serie di eminenti riferimenti a Rousseau teorico della volontà generale, cioè di una volontà cosciente della sua sovranità. Con la Rivoluzione francese assistiamo al tentativo che l’uomo fa di imporre la sua libertà assoluta alle cose, di salire al trono, per così dire, della storia. Però questa rivoluzione per Hegel non riesce. E non riesce per una ragione strettamente culturale: l’uomo della rivoluzione, e in particolare Robespierre, era ancora legato a una cultura, di cui partecipava lo stesso Rousseau, che teneva separate la volontà universale e la volontà singola. Se tengo separate la volontà universale e la volontà singola, naturalmente io penso di essere volontà universale e qualsiasi atto che altri compiano non può non essere un atto particolare e quindi, visto con i miei occhi di detentore della volontà universale, una sorta di tradimento della stessa. Hegel riconduce a questo atteggiamento culturale anche gli aspetti più tragici della rivoluzione, cioè il Terrore, la legge dei sospetti.. insomma, la fase culminante, robespierrista della Rivoluzione. Di questa fase egli parla con termini sprezzanti, proprio perché secondo lui questi politici si fondavano su una cultura insufficiente. Sembrerebbe perciò che la Rivoluzione francese si concluda con uno scacco.
Però, subito dopo, Hegel continua nell’esame dei risultati della Rivoluzione francese in due sensi. In primo luogo fa un accenno all’assetto post-rivoluzionario, quale fu quello del Direttorio e di Napoleone, in cui si è ricostituita, secondo Hegel, una situazione di tipo organico, cioè con i vari istituti e non con il “due” dell’individuo e dello Stato. Ma soprattutto Hegel esamina le conseguenze del Terrore, e dice che questa fase tragica della Rivoluzione, questa volontà generale che ha dato luogo alla morte, è nello stesso tempo qualcosa che dà luogo alla emancipazione dell’uomo. Vale la pena di leggere un brano della Fenomenologia che mi pare degno di molta attenzione: “Per la coscienza” – dice Hegel – “l’immediata unità di sé con la volontà universale, la sua esigenza di saper sé come questo determinato punto nella volontà universale, si trasforma nell’esperienza nettamente opposta. Ciò che quivi alla coscienza dilegua è l’astratto essere o l’immediatezza del punto privo di sostanza; e questa immediatezza dileguata è la stessa volontà universale, e come tale essa coscienza ora sa sé, in quanto è immediatezza tolta, in quanto è puro sapere o puro volere” (p.134, II vol.). In questo testo Hegel dice che il singolo che si aliena nella volontà universale e dalla volontà universale riceve morte, attraverso questa esperienza tragica prende coscienza del fatto che egli stesso in quanto uomo è capace di universalità. Allora la Rivoluzione francese, di cui Hegel poco prima, riferendosi particolarmente al Terrore, aveva parlato in termini sprezzanti, ha questa funzione emancipatrice insostituibile. L’uomo si accorge cioè, attraverso l’esperienza della morte, che la volontà generale o volontà universale gli appartiene, che è capace di universalità. L’interprete di questa emancipazione, secondo Hegel, sarà essenzialmente Kant, saranno i filosofi del periodo classico della filosofia tedesca.
Da questo punto di vista, dunque, parlerà pur sempre in termini entusiastici della Rivoluzione francese, che ha questa straordinaria funzione emancipatrice: fa sì che l’uomo prenda coscienza della sua capacità di universalità e, così, prepara quello che poi Hegel chiamerà il sapere assoluto.
Riferimenti bibliografici
Hegel Friedrich, Fenomenologia dello spirito, ultima edizione italiana: 2000
Valentini Francesco, Introduzione alla Fenomenologia dello spirito di Hegel, ed. La scuola di Pitagora 2011