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Progetto filosofi – Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche
Franco Volpi (Vicenza, 4 ottobre 1952 – Vicenza, 14 aprile 2009), professore Ordinario di Storia della Filosofia all’Università di Padova, riflette sul concetto di metafisica in Martin Heidegger (Messkirch 26 settembre 1889 – Friburgo in Brisgovia, 26 maggio 1976), partendo dall’assunto che platonismo e nichilismo, per il pensatore tedesco, sono termini indissociabili.
Riguardo al concetto di “sottrazione” dell’essere, c’è un tema che troviamo sin dagli esordi del pensiero di Heidegger: l’idea, presente nei testi giovanili, secondo la quale la vita umana è posseduta da una tendenza a “rovinare”, a cadere fuori di sé, a perdersi nel mondo delle cose e a non potersi quindi ritrovare se non in una forma, reificata. Può parlarci di questo nucleo teorico, che Heidegger elabora negli anni Venti e che attraverso continui mutamenti sfocerà nel concetto di storia della metafisica?
Per Heidegger la storia della metafisica è una vicenda, un destino che ha anch’esso delle radici profonde e di cui vanno ricercate le cause. Heidegger individua o segue fondamentalmente due cammini per arrivare a riconoscere queste cause. Un primo cammino è appunto quello da lui messo in atto nella prima fase del suo pensiero, soprattutto nei corsi tenuti nell’Università di Friburgo, nei primi anni Venti, e poi successivamente, tra il 1923 e il 1928, a Marburgo. Nel corso di questo suo cammino speculativo Heidegger cerca di mostrare come la metafisica e ciò che essa rappresenta non sia per l’uomo occidentale un evento casuale, ritenendo che essa sia il frutto di una dinamica insita in quel movimento particolarissimo che è la vita stessa dell’uomo.
La vita dell’uomo ha in sé un movimento che orienta e indirizza la vita, innanzi tutto e per lo più, verso delle modalità di attuazione, che sono per lo più inautentiche. Questo perché la scelta autentica è sempre più difficile e più faticosa di quella inautentica. Quando noi ci prefiggiamo di centrare un bersaglio, il colpire il centro è sempre la cosa più difficile che riesce in un modo e in un modo soltanto, mentre, per lo più, noi, in maniera anche abbastanza facile, riusciamo ad avvicinarci, a centrare il bersaglio, ma il centro, appunto, è uno e uno soltanto. Dal che risulta la facilità di sbagliare e la difficoltà di centrare. Ebbene, per Heidegger la vita umana è un qualcosa di analogo, è un progetto, la cui riuscita può avvenire in un modo, e in un modo soltanto, e che invece può andar male e fallire in molteplici modi. Il fallimento dell’esistenza è sempre più facile, sta sempre lì in agguato, mentre invece la sua riuscita è più difficile. Quindi c’è nella vita questa tendenza a rovinare, cioè a trovare, a cadere in attuazioni, che non sono all’altezza di una scelta autentica.
La metafisica con ciò che di negativo essa rappresenta agli occhi di Heidegger – cioè il progetto della soggettività umana nella sua pretesa di padroneggiare tutto l’ente, in quanto ente che è lì presente davanti, disponibile, come un materiale da sfruttare -, è il rispecchiamento a livello filosofico-teorico di questa tendenza connaturata alla specie umana a fallire piuttosto che a riuscire. Proprio perché l’esistenza richiede ognora di essere progettata, essa rappresenta un peso, una difficoltà da gestire e da amministrare, rispetto alla quale, appunto, noi rischiamo sempre di cadere in errore. E la metafisica è stata per Heidegger un destino, un errore, nel quale la storia umana è caduto. In questo errore metafisico si rispecchia dunque su un piano destinale, complessivo, quella tendenza che noi possiamo constatare in ciascuno di noi, quando ci troviamo di fronte al dover scegliere tra l’autentico e l’inautentico e verifichiamo la facilità con cui cadiamo nell’inautentico e la difficoltà di scegliere invece la forma di vita autentica. Nella prospettiva di Heidegger, una dinamica simile si verifica nella storia del pensiero e nella storia della civiltà occidentale.
Cartesio e Leibniz sono per Heidegger i pensatori nei quali è possibile rintracciare i caratteri distintivi della modernità: l’affermazione della centralità del soggetto e della sua attività rappresentativa, attività che riduce tutti gli enti a oggetti disponibili per essere dominati da parte dell’uomo. In che senso quella che Heidegger chiama la “soggettità” costituisce la struttura chiave della metafisica e quindi della nostra stessa epoca?
Per Heidegger è necessario distinguere tra soggettività e soggettità. La soggettività è una forma più radicale e più pervicace di “soggettità”, che inizia, appunto, in epoca moderna. Ma poiché per Heidegger l’esigenza dell’uomo di affermarsi come figura principesca che domina tutto l’ente non è presente solo nel mondo moderno, ma anche nel pensiero greco antico, a cominciare da Platone, egli deve introdurre questa differenziazione e usare il concetto di soggettità per indicare proprio questo atteggiamento già presente nei Greci, che trova poi in Descartes, in Leibniz e nella metafisica moderna un suo potenziamento nella soggettività moderna. Ecco dunque che allora per Heidegger si può configurare una matrice unitaria di tutta la storia occidentale, come storia della metafisica, in cui verrebbe ad affermarsi l’uomo come soggetto di conoscenza e azione nei rapporti con il mondo e con gli enti, e quindi un successivo potenziamento di questo progetto con il pensiero moderno, in cui tutto viene visto alla luce di questo principio, che diventa il principio della soggettività. Secondo Heidegger, con il pensiero nietzschiano della volontà di potenza viene portato alle estreme conseguenze il concetto metafisico della soggettità, la quale nasce con Platone in forma ancora debole – forma che Heidegger designa appunto come soggettità -, e si potenzia nella soggettività moderna, trovando infine la sua espressione massima ed estrema nella concezione di Nietzsche, secondo la quale tutto “ciò che è”, uomo o natura che sia, è espressione di una volontà di potenza, di una forza, di una energia concepita in termini di volontà, intesa come determinazione propria di un soggetto.
L’epoca moderna, come Lei ha appena detto, dai suoi esordi con Cartesio fino all’illuminismo di Nietzsche, intrattiene dunque profondi legami con il mondo greco. In che senso per Heidegger il platonismo e il nichilismo sono termini indissociabili?
Platonismo e nichilismo sono termini indissociabili perché, secondo Heidegger, il nichilismo non è altro che una forma rovesciata di platonismo o meglio è la conseguenza estrema a cui il platonismo ha portato se si considera quest’ultimo come quella forma di pensiero caratterizzata dalla dottrina dei due mondi.
Con il platonismo, infatti, matura la convinzione che il mondo così com’è, cioè il mondo sensibile così come ce lo attestano i sensi, non è un mondo vero, ma è solo un’illusione, un’apparenza, la quale ci rimanda inevitabilmente a un qualcosa d’altro, a un essere che non sia solo apparenza ma abbia i caratteri della stabilità e della verità. Si distingue così tra un mondo vero, che non è a noi disponibile o da noi raggiungibile immediatamente, e un mondo apparente che è il mondo nel quale noi ci troviamo. Ma in questo modo, cioè attribuendo i caratteri di verità a un mondo che a noi non è accessibile, noi poniamo una frattura, una dicotomia, che risulta, nell’interpretazione che dà Heidegger della storia occidentale, decisiva per questa storia stessa e che dà avvio a una dinamica che si concluderà solo con il nichilismo. In che senso? Nel senso che, una volta che si è distinto radicalmente tra mondo vero e mondo apparente, tra mondo sensibile e mondo ideale, e si è concepita questa distinzione come una frattura, si è al tempo stesso dichiarato che quel mondo, che noi poniamo come mondo vero, è un qualcosa che noi non possediamo, ma questa irraggiungibilità significa allo stesso tempo una svalutazione del carattere d’essere di quel mondo che pure noi poniamo come mondo vero.
Progressivamente questo carattere di idealità, in origine forse ancora accessibile ai pochi, ai sapienti, viene sempre più svanendo e sminuendo, fino a consumarsi nel fenomeno della svalutazione dell’ideale, nella consunzione dei valori che sono posti come ideali e che dovrebbero, in principio, orientare il mondo sensibile. Alla fine di questo percorso di svalutazione dell’ideale, noi abbiamo la consunzione, l’appiattimento su un mondo che è solo sensibile, ma che, essendo solo sensibile, privo di una stella polare di orientamento, è diventato un mondo senza senso, privo di significato, in cui tutto si riduce al nulla: è il mondo del nichilismo.
Bibliografia
Franco Volpi – Guida a Heidegger, Laterza, 2021
Martin Heidegger – Che cos’è la metafisica?, Adelphi 2001