Progetto filosofi – Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche
Francesco Valentini (Cosenza, 1924 – Roma, 2009) è stato Professore ordinario di Filosofia Teoretica all’Università La sapienza di Roma. In questa intervista Il filosofo spiega il rapporto tra lo spirito soggettivo e lo spirito oggettivo nel pensiero di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (Stoccarda, 27 agosto 1770 – Berlino, 14 novembre 1831), la critica di formalismo alla moralità kantiana, e la necessità del passaggio dalla moralità all’eticità, benché permanga poi il motivo della moralità come controllo della legittimità, della bontà o meno dell’ethos. Di seguito il testo con la trascrizione dell’intervista integrale
Con l’espressione “spirito oggettivo” Hegel intende il mondo della storia e delle istituzioni, e ad esso dedica una particolare attenzione; professor Valentini, perché per Hegel è necessario il passaggio dallo spirito soggettivo, che considera l’uomo in quanto individuo, allo spirito oggettivo, nel quale la libertà dell’individuo si realizza e prende corpo nella concretezza delle istituzioni?
E’ necessaria una premessa. Il modo di esporre di Hegel è un modo che implica che si vada dalle categorie più astratte verso quelle più concrete. Quindi direi che le ultime pagine delle opere di Hegel descrivono esperienze più concrete che non le prime. Quando noi parliamo di spirito oggettivo e spirito soggettivo, quello che è più concreto è l’oggettivo: in realtà io esisto nella storia e nelle istituzioni. Invece sono astratto in quanto spirito soggettivo o, in questo caso particolare, in quanto spirito libero. Hegel però giustifica nella sua esposizione il passaggio da una categoria all’altra, cioè, in questo caso, dallo spirito soggettivo allo spirito oggettivo; egli mostra la logica attraverso la quale una categoria passa nell’altra, e anche la logica della nuova categoria: senza questa la categoria precedente sarebbe astratta. Lo spirito soggettivo o lo spirito libero, cioè la figura culminante dello spirito soggettivo, sarebbe un uomo capace di libertà, la volontà consapevole; ebbene la volontà consapevole si avvede che la sua azione è un’azione la quale dà luogo a modificazioni della realtà, cioè che è una azione che certamente appartiene alla gente, ma che si stacca dalla gente. Hegel si porta in un contesto in cui la gente non può non essere; con questa tecnica egli passa dallo spirito libero allo spirito oggettivo, mostrando l’astrattezza dello spirito soggettivo staccato dal suo contesto.
Per Hegel lo spirito oggettivo si articola poi in tre momenti: il diritto, la moralità e l’eticità. La moralità, nonostante rappresenti un progresso rispetto alla dimensione giuridica, secondo Hegel si dimostra incapace di regolare la vita degli uomini e impone il passaggio all’eticità. In cosa consiste questo passaggio per Hegel?
Caratterizza bene il modo di pensare di Hegel il seguente aneddoto da lui riportato: ad un padre, che avrebbe chiesto ad un pitagorico come doveva educare suo figlio, il pitagorico rispose che ne avrebbe dovuto fare un cittadino di una città dalle buone leggi. In altre parole l’uomo probo, eticamente positivo, è quello che rispetta il costume e le tradizioni; è il cittadino della città dalle buone leggi. C’è in questo atteggiamento un’evidente suggestione dell’ethos greco; per Hegel la virtù consiste in questa adeguazione al costume. Inutile dire che per questo atteggiamento Hegel è stato attaccato e anche ridicolizzato: l’uomo virtuoso – si dice – sarebbe il conformista, quello che si adegua alle abitudini. Ma bisogna ben capire che cosa vuol dire “cittadino di una città dalle buone leggi”.
Le leggi devono essere buone; ma chi lo dice se sono buone o no? Evidentemente la ragione, sempre sovrana. Ebbene è grazie a questo passaggio che si può intendere il rapporto che Hegel poneva tra moralità ed eticità. La moralità è un’inflessione soggettiva, è la virtù del singolo in quanto tale. L’uomo della virtù morale è l’uomo che rispetta le leggi, ed è anche l’uomo che fa il suo benessere ed insieme il benessere degli altri. Ma l’uomo della moralità è anche in grado sommo, almeno secondo Hegel, l’uomo della moralità kantiana, che Hegel ha criticato, come è noto, ritenendola formalistica. In sostanza che cosa è la moralità vista in termini kantiani e qual è il suo limite secondo Hegel? In termini kantiani, e riferendoci, come anche Hegel fa, all’imperativo categorico, agire moralmente significa agire secondo una massima che può essere universalizzata, che può essere valida per tutti. L’obiezione di Hegel è che in questo modo praticamente non si dice nulla, perché tutte le massime possono essere universalizzate, qualsiasi azione può essere fatta da tutti; è il contenuto dell’azione quello che invece dovrebbe contare. Ora, quello che bisogna sottolineare, a proposito del rapporto moralità-eticità, è, per un verso, l’insufficienza della moralità, la quale mi dice che devo universalizzare la massime, ma non mi dice quali devono essere le massime. Questo non me lo dice la moralità, ma me lo dice la storia, me lo dice la situazione. D’altra parte, come si diceva poco fa a proposito della città dalle buone leggi, è la ragione che mi dice se le leggi sono buone o non buone; c’è dunque, da parte di Hegel, una ripresa del motivo della moralità in quanto controllo dell’eticità. Ci possono essere delle situazioni, da Hegel prese in esame, in cui l’eticità, l’ethos, la situazione, il costume non rispondono alle esigenze della ragione. In questo stato di cose Hegel ammette addirittura, contro le sue ispirazioni più consuete, la possibilità di una sorta di rifugio nell’interiorità, per ritrovarvi quell’equilibrio che le cose non mi danno. Naturalmente è una situazione che per Hegel è provvisoria, ma che egli non esclude. Quindi se è vero che l’eticità è più concreta della moralità, è indubbio che la moralità da parte sua ha una sorta di controllo sulla legittimità dell’ethos.
Hegel afferma che la ricchezza si distribuisce in maniera iniqua tra le persone e che ciò rappresenterebbe un elemento di irrazionalità, che la razionalità delle istituzioni moderne non riesce a neutralizzare; dunque possiamo dire che Hegel, che pure si ispira al liberismo di Adam Smith, non ha fiducia nella capacità del mercato di autoregolarsi?
Smith parlava per un verso della “mano invisibile”, cioè diceva che l’individuo, facendo il proprio interesse, accresce la ricchezza e il benessere generali, e quindi in sostanza fa l’interesse di tutti; per un altro verso però lo stesso Smith dice altrove che la ricchezza si distribuisce in modo ineguale, e che per ogni ricco ci sono almeno cinquecento poveri. In Hegel troviamo tutte e due questi motivi; troviamo il motivo della donatrice dalle mille mani, come egli dice, cioè della ricchezza che si espande – e quindi un apprezzamento positivo della ricchezza; però troviamo anche il motivo dell’alienazione della ricchezza, laddove Hegel parla della ricchezza come fattore di dominio e di mortificazione. A questo riguardo sono fondamentali le pagine che Hegel dedica nella Fenomenologia al Il Nipote di Rameau di Diderot.
Il nipote di Rameau rispecchia nel suo linguaggio, “scintillante di spirito”, come dice Hegel, ma insensato, una situazione essa stessa insensata. Noi potremmo dire che la ricchezza per Hegel è condizione necessaria di vita sensata, ma non è essa stessa sensata. Nella Filosofia del diritto Hegel prende una posizione precisa su questo punto, quando prospetta due possibilità: la possibilità, che egli esemplifica richiamando il lavoro di costruzione delle piramidi egizie, dell’assoluta libertà economica, e di una assoluta pianificazione, e la possibilità – come diremmo oggi – di un liberalismo selvaggio, cioè di lasciare l’iniziativa al singolo. Ebbene, Hegel dice che tocca allo Stato regolare questa situazione, tocca allo Stato muovere dall’uno all’altro estremo; e ciò a seconda non solo delle esigenze della civiltà e delle esigenze dell’uomo, ma anche delle esigenze della stessa ricchezza. La ricchezza, per Hegel, è infatti una essenza che è soggetta a crisi; produce sì benessere, ma, come Hegel dice, produce una società che, per quanto ricca, non è ricca abbastanza. Di qui l’esigenza dell’intervento politico che regoli il movimento della ricchezza.
Karl Popper, come è noto, ha annoverato Hegel tra i nemici della società aperta, perché avrebbe teorizzato la dissoluzione dell’individuo e della sua libertà nella superiore necessità dello Stato. Professor Valentini, da cosa derivano queste critiche? si può veramente considerare Hegel uno statalista?
Hegel è stato molto polemicamente considerato uno statalista da alcuni liberali, anche nel secolo passato. Indiscutibilmente Hegel attribuisce allo Stato, anche una funzione regolatrice, ma direi che non si può parlare di Hegel come di uno statalista, di uno statolatra, perché lo Stato hegeliano lascia margini di autonomia abbastanza larghi all’individuo; anche nel mondo della ricchezza, lascia larghe libertà alle associazioni, e quindi non è uno Stato oppressore. Tuttavia Hegel dice che lo Stato è un anche un orizzonte etico; però si tratta di una eticità nello Stato, vale a dire non di uno Stato che impone la sua etica, ma dello Stato come orizzonte della vita morale, e questo non mi pare scandaloso.
Bisogna però sottolineare che Hegel non intese appieno il liberalismo; basti ripensare alle ultime pagine della Filosofia della storia, dove critica la situazione della Francia, che appunto ritiene la situazione liberale, intendendo per situazione liberale una situazione in cui il singolo come tale o governa o fa l’opposizione. Quindi Hegel, considerando questo alternarsi al governo di maggioranze e maggioranze, ritiene che queste siano reclutate sulla base del singolo come tale, cioè dell’arbitrio del singolo. Proprio questo aspetto, che in realtà Hegel esagera, perché considera il singolo votante come singolo e quindi come portatore semplicemente di arbitrio, lo portò ad una posizione critica rispetto al liberalismo, a cui preferiva le forme organiche. Però nella sua costruzione c’è anche posto per le elezioni, ma non per le elezioni intese in questo senso.
Per Hegel lo Stato in ogni caso rappresenta il vertice della razionalità e della consapevolezza dell’uomo; eppure nella storia permane una contraddizione insanabile rappresentata dalla guerra. Come mai Hegel non ritiene realizzabile l’idea kantiana di una pace perpetua?
Hegel, riferendosi proprio allo scritto di Kant Sulla pace perpetua, in sostanza ritiene che il progetto ivi esposto sia irrealizzabile, perché in ultima istanza fa appello alla buona volontà che gli Stati dovrebbero avere di federarsi; egli, dunque, trova nel progetto kantiano una nota liberale, la pace dipendendo in fondo dall’arbitrio dei singoli Stati.
Questo però non significa, come molti hanno sostenuto, che Hegel in un certo senso amasse la guerra. Riteneva (come in fondo anche Kant riteneva) che la guerra fosse anche un fattore di emancipazione, che scuotesse cioè dagli egoismi. Questo motivo in Hegel è presente, ma non è il solo e non è nemmeno il più importante. Il motivo più importante è un altro: nella Filosofia del diritto, dopo avere accennato alla pace perpetua di Kant, parla della guerra come di una situazione di arbitrio e di violenza; la guerra è dunque qualcosa di negativo. Che cosa manca allora? Manca una autorità costituita a potere che eviti la guerra Quindi Hegel pensa, senza ritenerlo possibile o probabile, ad una sorta di superstato che eviti la guerra, perché la guerra per lui è ancora un fattore di irrazionalità e di violenza.
Bisogna innanzitutto esaminare i termini “reale” e “razionale”, e in particolare il termine “reale”. Ora – dice Hegel – “reale” non è qualsiasi esistenza, ma “reale”, che viene del resto da “wirken”, che vuol dire “agire creando”, è ciò che è più importante nella realtà. Naturalmente ci si domanda: che cosa voglia dire “più importante”. “Più importante” vuol dire più significativo, e “più significativo” in sostanza significa più sensato. Quest’ultimo termine rimanda ad una situazione tale che rende o che ha reso possibile la presa di coscienza della libertà dell’uomo.
Bisogna infatti ricordare che per Hegel la storia si è svolta attraverso una progressiva presa di coscienza della libertà dell’uomo, a partire dalla libertà di uno solo nel dispotismo orientale, alla libertà di pochi nel mondo greco romano, fino alla libertà di tutti nel mondo cristiano e poi germanico. Quando si parla di libertà di tutti naturalmente non si parla di una libertà effettiva di tutti, ma si parla di un fatto culturale, cioè del fatto che col cristianesimo, e poi specialmente con il protestantesimo, si è preso coscienza del fatto che l’uomo come tale è libero, cioè che è libero non in quanto romano, per esempio, o in quanto greco, ma è libero come uomo, come tale. Allora, quando noi parliamo di razionalità parliamo di determinati momenti della storia, quei momenti che Hegel ritiene razionali sulla base di questo criterio. E bisogna sottolineare che nulla è più selettivo della Filosofia della storia hegeliana, secondo la quale vi sono soltanto alcuni momenti della storia e alcune regioni del mondo in cui il senso si è venuto sviluppando. Noi possiamo accettare o respingere questa visione della storia hegeliana, però in nessun caso possiamo dire che Hegel si arrende al fatto compiuto.
Nelle Lezioni di filosofia della storia Hegel parla dell’ “astuzia della ragione” che utilizza le passioni, le intenzioni degli individui per realizzare scopi imprevedibili. Di cosa si tratta? E si può dire che Hegel concepiva il suo sistema come conclusivo?
Hegel dice appunto che la storia utilizza le passioni degli uomini. Secondo Hegel nulla di grande si fa senza passione, sicché l’azione politica è spesso, anzi quasi sempre, sorretta da passioni, che possono persino essere deteriori: l’ambizione di Giulio Cesare, per esempio. Che la storia si serva delle passioni, è naturalmente una metafora, che in sostanza significa che l’uomo, mettiamo Giulio Cesare, per desiderio di gloria o per ambizione conduce una determinata azione politica. Quindi la passione di Giulio Cesare è a servizio, per così dire, di questa azione politica, cioè del suo significato storico. Hegel manifesta una scarsa tenerezza per il singolo; egli afferma infatti che la morte di Cesare concerne soltanto Cesare in quanto uomo particolare, ma non è rilevante perché ormai questi aveva compiuto la sua missione politica.
Si è spesso rimproverato a Hegel di concepire il suo sistema come conclusivo, cioè come l’ultimo insuperabile sguardo della filosofia sul corso storico. Si è sostenuto che Hegel non rendesse conto della possibilità dell’ulteriore moto storico. Non è dubbio che il movimento, così come Hegel lo descrive, è un movimento che si chiude: gli avvenimenti da lui presi in esame sfociano nella situazione del suo tempo, nella quale l’uomo si emancipa e diventa libero. Ma Hegel stesso ha sempre detto che quando si fa filosofia è segno che un’epoca è entrata in crisi; dunque il fatto stesso che egli possa fare della filosofia, cioè possa, secondo le sue parole, interpretare il suo tempo, è indizio che il suo tempo è già entrato in crisi, cioè che ci saranno dei nuovi avvenimenti, delle ulteriori azioni politiche che daranno luogo a situazioni diverse. Bisogna perciò sottolineare che per Hegel l’uomo è completamente libero, proprio rispetto al corso storico che Hegel ha interpretato. Di fronte a questo corso storico l’uomo può decidere se accettarlo o se respingerlo, se continuarlo o se trasformarlo, ma in nessun caso (d’altra parte tale affermazione sarebbe stravagante) Hegel sostiene che il corso storico si ferma, o che il senso che si è realizzato nel corso storico esaurisca la totalità del senso.
Riferimenti bibliografici
Valentini Francesco – Introduzione alla Fenomenologia dello spirito di Hegel, Ed. La scuola di Pitagora 2011
Hegel Friedrich – Lezioni sulla filosofia della storia, ultima ed. italiana: 2003