Progetto filosofi – Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche
La professoressa Silvia Parigi delinea i tratti del pensiero presenti nelle opere del filosofo George Berkeley, (Contea di Kilkenny, 12 marzo 1685 – Oxford, 14 gennaio 1753), uno dei tre grandi empiristi britannici associati assieme a John Locke e David Hume.
Oltre che empirista, Berkeley viene definito altresì realista teologico, perché sancisce che le cose esistono in quanto percepite, e che tale esistenza è garantita dalla presenza di Dio.
Nel video Silvia Parigi descrive e commenta la teoria della visione del filosofo irlandese, partendo dalla frase “Esse est percipi”, contenuta nei Philosophical commentaries, dove si afferma che esistono solo le cose che percepiscono e le cose che sono percepite, ovvero cose materiali che il filosofo trasforma in cose sensibili, oggetti di una percezione attuale o possibile.
Il concetto di materia è invece contraddittorio, come egli stesso cerca di spiegare nel Trattato sui principi della conoscenza umana. Egli adduce ragioni apriori per affermare l’inesistenza della materia. Mentre le idee, secondo Locke, costituivano una sorta di velo che si frapponeva tra il soggetto conoscente e le cose percepite, impedendo così l’oggettività della conoscenza, per Berkeley la vera essenza della conoscenza è la conoscenza sensibile, ovvero la conoscenza delle cose proprio in quanto percepite. Il concetto di materia, dunque, per Berkeley non è necessario per procedere nella conoscenza del mondo, ma si può dimostrare senza fare ricorso a concetti astratti e metafisici.
Il secondo aspetto dell’Esse est percipi è insito nell’idea che esso è conforme al senso comune, non vi è perciò motivo di dubitare della conoscenza che i sensi ci offrono. In tale prospettiva, Berkeley ritiene che tutte le percezioni siano parimenti reali e che le cose esistono anche se non sono indipendenti dal soggetto che le percepisce. Esse sono “mind dependent”.
Per quanto riguarda l’attività scientifica di Berkeley, Silvia Parigi ci spiega che il filosofo irlandese mosse una critica al calcolo infinitesimale di Newton ma il suo contributo fondamentale è quello relativo alla teoria della visione, sulla cui base si fonda la nuova ottica psicologica moderna, distinta da quella fisiologica e da quella geometrica.
Egli sostiene che non possiamo cogliere l’ottica geometrica ma possiamo spiegare distanza, grandezza e posizioni degli oggetti nello spazio mediante una inferenza di natura psicologica, come accade per le sensazioni cinestesico-tattili. Sulla base di tali inferenza, dopo un apprendimento, riusciamo a percepire gli oggetti a distanza, al di fuori di noi.
Le idee della vista costituiscono, per il filosofo, il linguaggio che Dio parla ai nostri occhi ma basta prendere un cieco dalla nascita per capire che, dopo aver riacquisito la vista, senza una successiva fase di apprendimento, egli all’inizio vedrà solo un caos bidimensionale. Un esperimento del genere sarà compiuto nel 1728 su un ragazzo non vedente che validerà l’idea di Berkeley: il ragazzo, pur riguadagnando l’integrità fisiologica della visione, dovrà sottoporsi a una periodo di apprendimento, prima di poter vedere correttamente forma e distanza degli oggetti.
Per Berkeley, dunque, non esistono dunque idee innate ma tutto, anche la visione, avviene attraverso un processo di apprendimento.
Riferimenti bibliografici
George Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, 1710
George Berkeley, Saggio su una nuova teoria della visione, 1709