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Progetto filosofi – Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche
Sergio Givone (Buronzo, 11 giugno 1944), già Ordinario di Estetica a Firenze, riflette sul tema del “male”, considerato allo stesso tempo un concetto relativo e assoluto.
Il punto di partenza è un fatto di cronaca, il massacro di Novi Ligure compiuto da due minorenni, accaduto il 21 febbraio 2001.
Givone riflette sull’idea che il male, che i mezzi di comunicazione ci presentano nelle forme più devastanti, non procuri più nello spettatore quel senso di ripulsa violenta, di rifiuto totale che il male stesso dovrebbe provocare. Nelle epoche storiche che ci hanno preceduto il male era lì, non c’era il filtro dei mezzi di comunicazione ma era ben presente nelle vite quotidiane: pensiamo alle guerre, alle grandi malattie, alla Shoah. Man mano, secondo il filosofo, abbiamo perduto non tanto la capacità di gridare il nostro scandalo, il nostro dolore, di fronte al male, ma la capacità di sentirci responsabili sempre e comunque, anche di quel male che sembra così lontano da noi. Ci siamo voluti liberare di concetti come rimorso, pentimento, e siamo protesi a liberarci dal “senso di colpa”, come volendo fuggire dalla reale responsabilità collettiva che la tremenda realtà del male implica.
Il senso di colpa, dunque, non deve essere visto solo come qualcosa di cui liberarci, che è di per sé una cosa giusta, ma l’antenna che ci permette di penetrare una realtà che altrimenti resterebbe opaca. La colpa è qualcosa di più profondo a livello di coscienza, è il sentirsi responsabile anche di qualche cosa che non abbiamo voluto in modo diretto, o meglio abbiamo voluto senza volerlo, il grande paradosso del male. Il tema della conversazione filosofica con Givone parte dalla storia dei due ragazzi di Novi Ligure: è stato detto di tutto da sociologi e psicologi, eppure alla fine resta un atto senza spiegazione, perché se la trovassimo dovremmo poi spiegare perché ragazzi che vivono in contesti e famiglie simili a quelli dei due giovani di Novi Ligure si comportino di fatto diversamente da essi. La sola domanda pertinente rispetto a questa drammatica e violenta circostanza è, secondo Givone: i ragazzi di Novi Ligure sapranno prendere coscienza di ciò che hanno fatto? Se la risposta è sì, allora soffriranno terribilmente, perché solo attraverso la sofferenza profonda capiranno il male e potranno superarlo.
In riferimento a questo episodio di cronaca, Givone punta l’accento sul “paradosso del male”, nel suo carattere sempre relativo e, al contempo, sempre assoluto. Ci sono le circostanze che creano la relatività del male, perché stiamo sempre parlando di un singolo individuo che lo compie, con tutte le limitazioni che gli appartengono in quanto persona. Eppure il male è anche assoluto nel senso che c’è un residuo nel Male che resiste alla riconciliazione: una volta compiuto, rimane per sempre. Non se ne viene fuori semplicemente dimenticandolo o cancellandolo, perché questa sua resistenza ne impedisce la rimozione.
Il male è dunque paradossale: da un lato, come in questo fatto di cronaca, esprime una potenza che si abbate su di noi, come se potesse trascendere i limiti della volontà individuale. Ci capita di farlo, senza sapere cosa facciamo, e tuttavia è cosa nostra, ci appartiene, è qualcosa che in modo più o meno oscuro noi aneliamo. In questo episodio specifico c’è una sorta di esondazione, di eccesso del male, come se venisse dall’alto o da una profondità, eppure questo male è anche cosa loro, L’essenza del Male è che qualche cosa di infinitamente più grande della povera vita di questi due ragazzi è stato accolto dalle loro gesta e ora sono costretti a riconoscerlo, e solo quando lo riconosceranno come cosa da loro voluta, ne verranno fuori.
Quest’epoca è dominata da una ricerca di anestetizzazione circa il male e il dolore ma, per Givone, possediamo ancora le emozioni sufficienti a farci comprendere quanta sofferenza esiste, a cui non riusciamo a dare voce. Pensare che l’incapacità di provare rimorso, di dare voce a ciò che si agita nel profondo, caratterizzi completamente la nostra epoca è perciò azzardato. Bisogna capire quali strutture di senso mediano tra l’oscura volontà di dare corpo ai nostri fantasmi e la possibilità reale di fare questo. La religione un tempo ha svolto un ruolo fondamentale di mediazione, che oggi è in parte è venuto meno. Di qui la difficoltà a trovare parole, gesti, costellazioni di senso che ci aiutino. Lo strumento più raffinato di cui noi disponiamo sono i libri, ma i ragazzi leggono? Anche la televisione sarebbe uno strumento raffinato, ma dubito che ne sia capace. Dobbiamo trovare delle forme di mediazione, non resta che ritessere all’infinito questa tela linguistica simbolica.
Bibliografia
Sergio Givone – Quant’è vero Dio. Perché non possiamo fare a meno della religione, Solferino 2019