Progetto filosofi – Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche
Nell’intervista, il filosofo italiano Remo Bodei (Cagliari, 3 agosto 1938 – Pisa, 7 novembre 2019) spiega il pensiero del filosofo olandese Baruch Spinoza (Amsterdam, 24 novembre 1632 – L’Aia, 21 febbraio 1677), ritenuto uno dei maggiori esponenti del razionalismo del XVII secolo, antesignano dell’Illuminismo e della moderna esegesi biblica.
Qui sotto la trascrizione dell’intervista integrale
1. Professor Bodei, Spinoza è stato riguardato come filosofo “maledetto”: perseguitato ed emarginato in vita, combattuto e guardato come figura sospetta e pericolosa dopo la morte. E ciò a causa delle sue opere, nei confronti delle quali si è seguito lo stesso atteggiamento persecutorio che si era seguito nei confronti del loro autore. Vuole mostrarci le ragioni di fondo di questa sua caratteristica di filosofo “maledetto”?
Sono molte le ragioni che accomunano Spinoza ad altri filosofi “maledetti”, come Machiavelli o Giordano Bruno. Sono ragioni di natura diversa e molteplice, ma coincidono con quelle che hanno portato alla demonizzazione di Machiavelli o al rogo di Giordano Bruno, perché tutti questi pensatori svuotano dalle fondamenta alcune convinzioni che hanno guidato la tradizione dell’Occidente – e non solo dell’Occidente – per millenni.
Il primo motivo di scandalo additato in Spinoza fu la sua identificazione di Dio con la natura, che implicava la negazione non solo dell’esistenza di una divinità personale, quale quella della tradizione ebraica, a cui Spinoza apparteneva, o della tradizione cristiana, ma anche della provvidenza divina. Se Dio è natura, noi siamo parte della natura, ma soltanto parte; questo distingue Spinoza da impostazioni quasi contemporanee a lui, come quella, ad esempio, della filosofia di Bacone, che voleva che l’uomo, viceré dell’Altissimo, diventasse padrone della natura. In Spinoza troviamo un rapporto molto più rispettoso nei confronti della natura, perché la parte non può dominare il tutto. E neppure siamo, come credeva di essere l’uomo del Rinascimento, un microcosmo; in noi, cioè, non si riproduce miniaturizzata l’immagine di tutta la natura. In quanto passivi subiamo gli effetti di tutte le forze naturali, e sarebbe assurdo e ridicolo che noi pensassimo di poter superare questa passività. Al massimo la possiamo attenuare, e questo è il compito che si pongono, sostanzialmente, le opere di Spinoza, e in particolare l’Ethica.
Il secondo motivo di scandalo fu l’identificazione della necessità con la libertà. Spinoza arriva a dire che anche una pietra lanciata in aria crederebbe, se potesse pensare, che il suo movimento sia stato causato da se stessa, cioè che sia libera di muoversi. Per Spinoza non siamo affatto liberi nel senso che le cause delle nostre azioni dipenderebbero soltanto da noi: tutto nel mondo è il risultato di cause e di effetti. È interessante notare che anche per altri grandi pensatori non filosofi di tradizione ebraica come Freud o Einstein (ammiratori peraltro di Spinoza) nel mondo niente avviene a caso. Così era per i lapsus o per i sogni in Freud; così era per Einstein, che aveva scritto anche una prefazione a un libro su Spinoza: basti ricordare la famosa affermazione secondo la quale Dio non gioca ai dadi. Il problema di Spinoza è quello di essere liberi non nel senso di sfuggire alle leggi di natura, ma di utilizzare le leggi di natura come si fa per esempio con il vento – che certo non soffia per far piacere a noi – quando lo si utilizza per gonfiare, poniamo, le vele di una barca. Quindi per Spinoza non dobbiamo andare contro le leggi naturali per esseri liberi in un senso più lato, ma dobbiamo piegarle ai nostri scopi e alla nostra utilità.
Il terzo motivo di scandalo è stato il rifiuto dell’etica del sacrificio, della idea della morte e della vanità di tutte le cose. Spinoza infatti afferma con decisione il diritto di ogni individuo al perseguimento della sua “utilitas”.
Questa posizione non coincide con l’egoismo, ma implica che l’individuo non debba sacrificarsi perché in Spinoza – quarto e ultimo motivo di scandalo, collegato al precedente – il potere e il diritto coincidono: il pesce grosso mangia il pesce piccolo. Quindi finché l’individuo non avrà raggiunto un grado di potere adeguato non potrà, per così dire, lamentarsi della sua sorte.
Ma per Spinoza, per quanto possa apparire contraddittorio, dato l’elemento di identità tra essere liberi ed essere necessitati, e tra l’aver potere e l’aver diritto, gli uomini possono cambiare attraverso uno sforzo, un conatus, che rende possibile che ci sia una morale umana. Spinoza afferma che ciò che è bene per il lupo è male per l’agnello, che alla fine nell’universo il bene e il male si elidono. Queste tesi sono apparse il segno di un supremo immoralismo; per lui, invece, tali ragionamenti sono espressione non di relativismo morale, ma della tesi che l’uomo può avere una morale che è tipica dell’uomo: noi siamo per natura degli uomini e abbiamo una morale che è semplicemente umana.
2. Quali sono, nel loro insieme, gli elementi che caratterizzano l’uomo?
L’uomo è caratterizzato dalla cupiditas: è un animale desiderante. Spinoza distingue tre livelli della conoscenza e tre livelli dell’essere uomini, che sono tre stadi del desiderio.
Il primo stadio è quello della passività, delle passioni – se ne contano oltre quaranta. Le passioni, a cui corrisponde, a un altro livello, l’immaginazione, non sono puro disordine ma sono, per quanto spiacevoli, intellegibili, così come è intellegibile per noi, almeno dopo Beniamino Franklin, il fulmine. Anche le cose che ci fanno soffrire hanno una loro spiegazione: questo vuol dire Spinoza. Allora, nel caso dell’immagine dell’uomo, per Spinoza il primo passo che dobbiamo fare è accettare di essere passivi, dal momento che le passioni sono il segno ineludibile della nostra passività nei confronti delle forze dominanti dell’universo; il nostro corpo e la nostra mente sono spersi nell’immensità della materia e delle altre menti degli uomini, e quindi non possiamo pretendere orgogliosamente di comandare all’intera natura.
D’altra parte l’essere passivi non implica affatto che questa passività non si possa in parte superare. Spinoza fa un esempio molto chiaro: un bambino è certamente più dipendente dalle cause esterne, meno autonomo di un adulto: dipende dagli altri per la sua alimentazione, o per i suoi bisogni. Però crescendo diventa più capace di autogovernarsi, e abbandona tutte quelle fantasie che son tipiche dell’infanzia, diventa più razionale. Per Spinoza, dunque, non basta esigere che si abbandonino le passioni, perché le passioni si abbandonano soltanto quando si sa che non è possibile liberarsene completamente, ma che si possono trasformare in affetti, cioè in qualche cosa che non è cieco desiderio ma conoscenza. Donde il secondo livello del nostro modo di esistere e di conoscere, del nostro sforzo, del nostro conatus: la ragione.
La ragione è il campo dell’ordine, dell’esplicito, delle conoscenze universali. Ma noi sprechiamo un enorme quantità di energia nel dire “vade retro, Satana!” alle passioni, sicché la ragione, pur essendo per Spinoza qualcosa di assolutamente necessario, non costituisce l’ultimo stadio dell’essere uomini. Lo stadio più alto, a cui pochi tuttavia giungono – sono quelli che Spinoza chiama i “saggi” o i “savi” -, è l’amore intellettuale.
È necessario intendersi su cosa sia l’amore intellettuale, perché di Spinoza sono state date interpretazioni di tipo mistico: in chiave di mistica occidentale, o ebraica, o addirittura buddistica. L’amore intellettuale, per Spinoza, non è una negazione della ragione, ma è semplicemente la conoscenza delle cose particolari che presuppone i due stadi precedenti. Anche in questo caso un esempio può aiutare a chiarire. Quando studio una lingua straniera, imparo in genere, secondo i vecchi metodi pedagogici, una serie di regole generali, per poi esercitarmi ad applicarle ai casi particolari. Invece, una volta appresa la lingua, posso creare continuamente delle frasi particolari, specifiche, così come, dopo aver appreso a guidare l’automobile, sono in grado di muovermi in tutte le situazioni imprevedibili del traffico stradale. Sono così sicuro di me stesso che, presupponendo conoscenze universali, posso creare delle “leggi individuali”. Avendo una conoscenza adeguata alla molteplicità degli enti che formano la natura, posso passare tra due automobili sfiorandole per centimetri, e posso creare, se sono un grande poeta, degli elementi di novità all’interno di una lingua.
Un punto interessante è che in Spinoza non c’è una concezione statica della natura umana, così come non c’è una concezione statica della natura in generale o di Dio in generale: tutte le cose sono sottoposte a cambiamenti. Quello che però Spinoza ritiene tipico dell’uomo, è la mobilità. Gli uomini possono compiere dei passaggi o delle transizioni da uno stato dato ad uno peggiore o migliore: quando io vado verso il peggio, vado verso il peggio perché non sono capace di staccarmi da quelle passioni di tristezza – di tristitia, le chiama Spinoza – che mi deprimono e mi opprimono, come la malinconia, l’odio, l’invidia. Tutte queste forze mi tengono prigioniero; ma io devo essere capace di crescere su me stesso, perché il problema spinoziano non è soltanto quello dell’autoconservazione – com’era nel passato, com’era in Hobbes -, ma è quello dell’autoespansione: l’uomo nell’ambito della necessità può crescere diventando più padrone di se stesso, sia in termini individuali che sociali. Quindi io posso compiere una transizione verso il meglio, e questa transizione mi rende non soltanto più saggio, più razionale, ma anche, nello stesso tempo, più felice. Passare dal livello delle passioni o dell’immaginazione al livello della ragione mi tranquillizza ancora di più, ma passare dal livello della ragione a livello dell’amore intellettuale, cioè dal livello delle conoscenze generali al livello delle conoscenze specifiche, mi fa sentire nel mondo e nella società più a mio agio.
La saggezza per Spinoza non è data da chissà quali capacità di sapienza; la saggezza è data anche dal sentirsi in sintonia con la realtà di cui si accettano le regole del gioco, cioè è data dalla rinuncia così come sarà intesa da Goethe, che è stato, assieme ai Romantici, colui che ha più diffuso l’idea dello spinozismo. Ma la grande rinuncia è quella che permette le grandi realizzazioni: soltanto se ci autolimitiamo – possiamo dire con Goethe – riusciremo a fare qualcosa.
3. Lei ha sottolineato che la necessità e la libertà, in rapporto alla concezione dell’uomo, sono visti come coincidenti. Ora questo non lascia intendere perché al mondo dell’etica si dà l’importanza che si dà da parte di Spinoza.
La libertà per Spinoza non è certamente uscire fuori dalle leggi della natura o – per usare una sua espressione – essere un impero in un impero. Noi possiamo essere liberi – e a questo l’Ethica ci conduce: l’ultimo libro si intitola appunto Della libertà umana – tutte le volte che abbandoniamo la pretesa di essere autonomi per natura, o per grazia divina, per miracolo.
Spinoza ha avuto una formazione non filosofica: all’inizio faceva il mercante, e poi, dopo che i suoi compagni di religione paterna gli procurarono dei guai – gli fecero un attentato -, si ritirò per fare il molatore di lenti. Facendo questo mestiere Spinoza si era accorto di un fatto molto importante, cioè che è impossibile, anche con la lente più perfetta, eliminare la rifrazione cromatica e certe perturbazioni prodotte dalla curvatura della lente. Allo stesso modo Spinoza sa che non è possibile avere una conoscenza del mondo e di noi stessi perfetta, senza deformazioni, perché noi non siamo onnipotenti, non siamo Dio; del resto questo Dio non è nessuno perché è tutti, non è una persona. E allora essere liberi vuol dire conoscere quali sono i limiti – espandibili – della nostra libertà, sapere che possiamo ampliare la sfera del nostro intervento se però siamo consapevoli delle condizioni date, condizioni che possono essere anche di tipo politico.
Raggiungere i gradi della razionalità o i gradi dell’amore intellettuale per Spinoza significa, ad esempio, abbandonare la filosofia della coscienza come è nata in epoca moderna con Cartesio, cioè l’idea che io capisco le cose perché queste cose sono evidenti a un Je, a un Io che ne accetta il valore. Dal punto di vista di Spinoza, il soggetto non è più l’Io ma il Noi, cioè il genere umano più in generale, ovvero quel tipo di comunità di uomini capaci di intelligenza che si rendano conto che il loro spazio di movimento dipende dalla capacità di intervenire sul mondo utilizzando le situazioni per modificarle. Faccio un esempio molto semplice che si ritrova in Spinoza stesso, proprio nell’apertura del Trattato teologico-politico. È inutile fare prediche agli uomini dicendo “siate più razionali”, quando gli uomini sono sottoposti alla ruota della fortuna, dipendono dal caso, dalla miseria, da passioni generate dall’odio; gli uomini non saranno mai razionali, saranno, piuttosto, superstiziosi, e quindi vivranno nel mondo dell’immaginazione e delle passioni. La loro vita insicura li rende refrattari alla razionalità. Se si vuol essere più autonomi, più capaci di guidare la propria esistenza – dice Spinoza -, bisogna agire diversamente: bisogna non convincersi in maniera volontaristica ad essere più intelligenti, più razionali, ma bisogna cambiare le proprie condizioni, rendere la vita più sicura. Soltanto in questo modo gli uomini saranno capaci di essere più razionali. Analogamente – anche se questo succede raramente -, si potrà giungere all’immagine del saggio e a realizzarla se si capirà che la conoscenza di regole generali non basta. E il saggio non è un individuo solitario, come era nelle vecchie tradizioni, non è colui che disprezza il volgo; il saggio è colui che, invece, più partecipa dei problemi di tutti, delle situazioni più generali, che si sforza di capire di volta in volta a seconda delle condizioni specifiche in cui ci si trova ad agire.
Perciò, riassumendo il senso della risposta alla sua domanda, un uomo può essere più libero pur rispettando l’ambito della necessità; e l’etica serve a qualche cosa proprio perché ci insegna i passaggi attraverso i quali possiamo essere più in grado di controllare il nostro destino, intervenendo sulle cause che ci fanno soffrire e, in parte, eliminandole.
4. Dalla condizione di passività è quindi possibile emanciparsi, ovvero i limiti alla nostra possibilità di espansione possono essere posti più innanzi. Si passa dalla sudditanza nei confronti delle passioni ad una condizione diversa, nelle quali le passioni sono, potremmo dire, sublimate, e il mondo che ci governa è un mondo di affetti. Come si articola questa transizione?
Gli affetti sono delle forze attive che, invece di contrastare con la razionalità o con l’amore intellettuale, ci permettono di espandere la nostra forza di esistere. Un punto centrale in Spinoza è questo: il nostro potere e la nostra libertà, intesa come autonomia, crescono tanto più, quanto più crescono la nostra vis existendi o vis agendi.
Però qui Spinoza è problematico. Egli ha scandalizzato affermando che una cosa non la desideriamo perché è buona, ma è buona perché la desideriamo, e dunque sono i nostri desideri, i desideri dell’uomo come animale desiderante, che stabiliscono ciò che è bene. Ora, perché le passioni sono malvagie? Non per un motivo di carattere moralistico, perché non coincidono più, come per esempio nella tradizione cristiana, con il peccato. Esistono passioni che ci trascinano verso il basso, verso l’infelicità, che ci costringono a permanere in una condizione di minorità psichica e fisica, cioè a essere dipendenti da forze esterne; e passioni che invece sono capaci di rigenerarsi e trasformarsi in forze attive – favorendo la ragione, ad esempio. Queste passioni sono, ad esempio, la laetitia – o gioia, come normalmente si traduce – e soprattutto l’amore. Però nelle passioni che si trasformano in affetti non scompare mai l’elemento immaginativo: le passioni che diventano affetti non sono, di per se stesso, separate dalle cause esterne che le producono. Siccome l’immaginazione dipende dal nostro raffigurarci le cause esterne, si può dire che anche gli affetti mantengano, in fondo, un elemento di passività sublimata. Soltanto nell’amore intellettuale, in cui si congiungono i due elementi – quello “caldo” dell’amore, della spinta affettiva, e quello “freddo” dell’intelletto -, si ha la soluzione per cui da un lato la passione perde la sua passività e l’amore non è più affetto dipendente da cause esterne, e dall’altro l’intelletto perde il suo carattere di generalità, di universalità che non rispetta il particolare.
L’amore intellettuale è l’amore intellettuale di Dio, cioè di tutte le singole esistenze nella natura. Non è un amore ricambiato, è un amore “intransitivo”. Goethe lo esprime molto bene (e molto spinozianamente) ne Gli anni di noviziato di Wilhelm Meister, quando fa dire a un suo personaggio: “E se io ti amo a te che importa”. Non importa essere riamati, perché, non essendo la natura una persona, non ci può riamare. Quindi l’amore intellettuale, la conoscenza delle cose, è il tentativo di superare sia la passività data dalle passioni e dall’immaginazione, sia l’attività di “conquista” da parte di una ragione astratta che vuole semplicemente asservire le passioni; è il tentativo di inserirsi in un contesto in cui si riconosca a tutti gli esseri pari dignità.
È interessante notare che esiste una grande quantità di studi fatti da filosofi e da psicanalisti, in cui si cerca di mostrare – io non so quanto sia vero storicamente, però certo le analogie in termini di pensiero e di struttura esistono – come la stessa cura psicanalitica di Freud consista nella traduzione delle passioni in affetti, cioè nel trasformare ciò che ci fa soffrire da qualcosa che noi semplicemente subiamo a qualcosa che, alla fine, accettiamo e comprendiamo. Quando si guarisce, non solo si riesce a ricongiungere dei pezzi staccati o ignorati della propria vita del passato al proprio presente, ma nello stesso tempo anche a dare un senso a quelle sofferenze, a quella passività di cui prima si era preda, e a trasformare queste energie psichiche bloccate. Freud adoperava l’immagine di una diga; raffigurava le pulsioni come delle enormi masse d’acqua che dovevano essere trattenute e canalizzate, se possibile, e la malattia mentale come la rottura della diga costruita per questo ufficio. I disturbi psicologici che Freud chiamava “nevrosi” erano, anche dal punto di vista energetico, le energie pulsionali – o, se vogliamo, passionali – che restavano ingorgate e che non venivano ben spese, ben utilizzate. Quindi la cura psichica freudiana può apparire, in un certo modo, come una libera disponibilità di quella quantità di energia psichica che prima era immobilizzata, e che ora può essere spesa. Un nevrotico che soffre, per esempio, di ciò che Freud chiamava “nevrosi ossessiva”, che si piega esattamente i pantaloni in un certo modo prima di andare a letto, che non calpesta mai il punto di intersezione nel marciapiede tra due lastre di granito, spreca una grande quantità di energia psichica immobilizzandola in questi rituali che gli servono semplicemente per sfuggire a una angoscia molto più profonda. Se però riesce a guarire non soltanto di tale sintomo, ma anche di ciò che lo provoca, può, capendo se stesso, utilizzare meglio queste energie. Questo è un esempio un po’ forzato, ma chiarisce di luce radente e indiretta la posizione di Spinoza nei confronti delle passioni e della loro trasformazione in affetti.
5. La visione di Spinoza resta comunque improntata a una concezione estremamente drammatica dell’esistenza, perché non tutti possono pervenire alla saggezza…
La maggior parte degli uomini resta infelice, soprattutto se preda della miseria, dell’oppressione politica, o della situazione storica avversa. Gli uomini sono perciò di solito preda della superstizione, che rimane inestirpabile se non vivono una vita tranquilla.
Anche in questo caso in Spinoza – il suo motto essendo che non bisogna né ridere né piangere degli uomini, ma capirli (intelligere) -, non c’è nessun tentativo né di commiserazione né di esaltazione dei difetti degli uomini. In questo si distingue anche in termini politici dai suoi contemporanei, perché per lui il fatto che gli uomini siano quel che sono – cioè il risultato dell’oppressione politica, della miseria – non è un fattore eterno, e perciò non bisogna essere troppo realisti, come i teorici della ragione di stato o Hobbes (secondo i quali gli uomini sono malvagi, e dunque li si può tranquillamente opprimere). D’altra parte non bisogna essere nemmeno come gli utopisti, che Spinoza condanna per motivi complementari ed opposti. Essi vorrebbero che gli uomini fossero diversi da quelli che sono e immaginano delle società perfette, che non sono mai esistite, in cui si presuppone una libertà assoluta, cioè priva di qualsiasi condizionamento. In conclusione, la maggior parte degli uomini è, per Spinoza, infelice; ma di questa infelicità molte volte gli uomini devono dare la colpa anche a se stessi.
Il grande problema di Spinoza, infatti, è come uscire dalla passività e dall’obbedienza, o da quella che un grande scrittore francese del Cinquecento amico di Montaigne, Etienne de La Boètie, ha chiamato “la servitù volontaria”. È il mistero doloroso della politica e della religione: perché gli uomini ubbidiscono? Il Trattato teologico-politico è contro l’aquila bicipite della religione e della politica; esse, agendo insieme, opprimono gli uomini, e invece di emanciparli, sia pure gradualmente, li tengono a un livello quasi infantile in cui, attraverso i miti o l’oppressione, li costringono – ad esempio in politica – a servire alle ambizioni di uno solo.
Dunque gli uomini sono infelici perché la loro vita è insicura; ma anche se fosse sicura, Spinoza non pensa che tutti possano diventare saggi: non è realistico, perché non ne hanno tempo, o non ne hanno voglia. E questo nonostante che la saggezza non sia solitudine, non sia pensare a se stessi e perfezionare la propria anima. Non dimentichiamo l’importanza che ha avuto Machiavelli per Spinoza; Machiavelli aveva sostenuto che se si dovesse scegliere tra la salvezza della propria anima e la salvezza della repubblica bisognerebbe scegliere la salvezza della repubblica. Questo atteggiamento è anche molto spinoziano (Spinoza inoltre non crede alla salvezza dell’anima intesa come anima separata).
Solo il saggio è felice, cioè più privo di condizionamenti. Ma non ne è privo ventiquattro ore su ventiquattro: non si può essere saggi ventiquattr’ore al giorno. Anche il saggio ha malattie, acciacchi; basta un grumo di sangue, o una bollicina d’aria nel circolo sanguigno, o un germe qualsiasi per ammazzare il più grande saggio. Quindi non c’è, in Spinoza, un’idea prometeica dell’uomo. L’uomo non è un padrone della natura; è un essere naturale che non può pretendere di trasformarsi in una sorta di tiranno che opprime la natura stessa. Aveva quindi torto un pur grande scrittore spagnolo, un filosofo, Unamuno, quando diceva di Spinoza che era un triste judìo di Amsterdam che si divertiva a mostrarsi con la faccia allegra.
Spesso i biografi di Spinoza hanno tramandato degli aneddoti un po’ demenziali; per esempio Spinoza si sarebbe divertito a prendere una mosca e a metterla in una ragnatela, per poi ridere a crepapelle. Io non so se il racconto sia vero; in tal caso forse Spinoza voleva dimostrare come ciò che è buono per il ragno non è buono per la mosca, e che quindi esistono delle situazioni naturali in cui l’uomo è come una mosca in una ragnatela. Il problema di Spinoza, però, è che questa ragnatela non si può certo strappare completamente, ma qualche filo si può erodere, e si può comunque star lontani – il che è più possibile – dai ragni.
È interessante notare che il giovane Marx aveva letto e postillato il Trattato teologico-politico proprio nel periodo in cui scriveva la sua tesi su Epicuro. Probabilmente Marx ha ricavato da Spinoza l’idea che se non si modificano le condizioni in cui gli uomini vivono, e si fa appello (come secondo Marx facevano gli idealisti) soltanto alla forza della coscienza, essi resteranno continuamente infelici. Donde l’esigenza di modificare il mondo per modificare la coscienza e non – per usare i termini marxiani della famosa Undicesima tesi su Feuerbach – semplicemente di interpretare il mondo. Ma forse Spinoza era, per quanto riguarda questo punto, più avanti di Marx, nel senso che non poneva in contrasto l’interpretazione del mondo con il cambiamento del mondo; sapeva che entrambi erano necessari.
6. Si può affermare che il programma di trasformare le cose non solo per quanto riguarda la vita degli individui, ma anche per quanto riguarda la vita in società resti sempre primario in Spinoza?
Certamente, perché in Spinoza è presente l’idea che gli uomini devono sfuggire alle passioni negative non soltanto dal punto di vista individuale, ma anche dal punto di vista collettivo.
Le passioni più pericolose, le passioni teologico-politiche per eccellenza, sono la paura e la speranza. Noi siamo abituati a considerare la paura come una cosa cattiva e la speranza come una cosa buona, o una virtù teologale o un principio che aiuta la ragione a sopravvivere; per Spinoza invece paura e speranza non sono altro che il rovescio e il diritto della medesima medaglia, cioè sono passioni di attesa caratterizzate dall’incertezza. La speranza è una gioia incostante che attende un bene futuro; la paura è una tristezza incostante, oscillante, di attesa di un male. Quindi dal punto di vista politico la paura è il fondamento non soltanto dell’assolutismo, ma di quasi tutti i regimi che gli uomini hanno conosciuto: non si può governare senza incutere timore. Per Hobbes soltanto la paura può costringere gli uomini a obbedire a delle leggi. In Hobbes troviamo addirittura una genealogia della ragione dalla paura: la ragione non è altro che una passione d’ordine che nasce da un calcolo utilitaristico – ratio del resto in latino vuol dire calcolo. Gli uomini capiscono che se la violenza dello stato di natura continua, nessuno è sicuro ed è meglio vivere secondo regole. Anche dopo che si passa allo stato civile la paura tuttavia non scompare; è nota a tutti la frase di Hobbes che “l’uomo è lupo per l’uomo” (homo homini lupus), e la sua convinzione che la pace sociale si mantiene soltanto attraverso un grande lupo, il monarca (e dunque con il terrore e la paura).
Spinoza, invece, è completamente contrario a questa ipotesi perché sa che la paura deprime le energie umane; gli uomini non si potrebbero sviluppare e, per favorire il potere di qualcuno, si terrebbe in soggezione la forza di vivere degli altri. Spinoza contrappone al motto hobbesiano la frase secondo la quale l’uomo è Dio per l’uomo, che vuol dire che non c’è niente di meglio, per arricchire la socialità, che considerarla come la maggiore possibilità di sviluppo per gli uomini: soltanto vivendo in società gli uomini cambiano. Per questo Spinoza è contrario ai “malinconici”, a quelli che si rinchiudono in se stessi e vivono una esistenza solitaria, a quelli che ritengono, cioè, che non valga la pena sforzarsi per vivere in comunità, ai misantropi. L’idea di Spinoza è che né la paura né la misantropia aiutano, ma neppure la speranza e l’idea che gli uomini possano cambiare radicalmente. Quello che Spinoza vuole dimostrare è che una buona politica, una buona convivenza, esiste soltanto quando gli individui son capaci di agire collegialmente, in modo tale che possano modificare le loro posizioni di volta in volta e crescere nella loro influenza reciproca.
7. Ma come mai Spinoza dà così tanto rilievo a questo tema della misantropia pur vivendo in un’Olanda, l’Olanda del suo tempo, che era caratterizzata da una prorompente vitalità della quale è, per esempio, testimonianza la produzione pittorica dell’epoca?
Questa è una domanda interessante perché mostra cosa significano per Spinoza la politica e la filosofia come meditazione della vita. In effetti l’Olanda del tempo di Spinoza è una nazione ricca, e questo pone un problema. Il modello spinoziano, diversamente dai modelli precedenti ispirati, ad esempio, a Sparta, e che ancora avranno effetto durante la Rivoluzione Francese, non ha nulla di austero. Spinoza non è per la dissipazione, ma è per i piaceri onesti, o, per meglio dire, per quei piaceri che rendono la vita più felice. In questo appartiene al suo tempo: è un mercante che nel Trattato teologico-politico ha fatto l’elogio di Amsterdam, la città ricca, bene amministrata, in cui tutti possono esprimere le loro idee in piena tolleranza. L’Olanda di questo periodo è una grande potenza commerciale che minaccia addirittura gli interessi inglesi; con l’Inghilterra gli Olandesi ebbero infatti degli scontri, durante la vita di Spinoza, per la supremazia sui mari. A proposito dell’arte, va detto che in Spinoza l’attacco ai melanconici e ai solitari in favore della vitalità e del piacere della gioia fa riflettere sui quadri olandesi, e dà l’occasione per un gioco di parole. Quelle che noi chiamiamo in italiano “nature morte”, in realtà in olandese si dicono con una parola che implica “la vita giunta al suo culmine”: la frutta nel suo splendore prima che si decomponga, le ostriche, che sono un simbolo afrodisiaco e di piacere, la cacciagione. Insomma la promessa del piacere di tutte le cose, che però dietro hanno anche l’elemento malinconico perché imputridiranno, finiranno; il piacere è passeggero. Alla natura morta Spinoza contrappone la natura viva; tutto il mondo è, cioè, cambiamento.
Questo cambiamento implica anche, a livello politico, che la vita sociale non può essere, come in Hobbes, dominata dalla paura o dalla speranza come attesa di qualcosa di buono che non verrà mai, nella quale bisogna sacrificarsi nel presente in modo che il futuro sia migliore. In Spinoza troviamo l’immagine di una nuova democrazia in cui i diritti non vengono erogati dall’alto, nella quale, cioè, non si dice agli uomini per decreto “siate felici” , o “siate uguali”, “siate liberi”.
In Spinoza non troviamo, dunque, il modello di Rousseau. Questo è un punto importante in termini di storia della cultura, ma anche di filosofia politica generale: mentre in Rousseau assistiamo al trionfo supremo del modello del diritto naturale , in base al quale il singolo aliena la propria libertà totalmente alla volontà generale, allo Stato, per riceverla indietro per intero e restare libero come prima, Spinoza non parte dalla rinuncia della libertà perché sa che nessuno Stato restituirà al singolo, se questi non ha potere in quanto tale, la sua libertà intera, ma defalcherà sempre qualche cosa operando, per così dire, una “trattenuta d’acconto” sul versamento della sua libertà. Quindi lo Stato non nasce, per Spinoza, sul presupposto di una piccola minoranza, come poi accadrà dai Giacobini al Partito Bolscevico (dopo, almeno, il 1918, allorché i Soviet vengono aboliti). Non nasce dall’idea che la libertà dei singoli possa essere irradiata dall’alto, dall’idea di Robespierre che diceva: “tre uomini possono trasformare la Repubblica”. E non nasce, come succederà dai Giacobini in poi, trasformando le passioni private in pubbliche, cioè istituzionalizzando la paura e la speranza. Il punto che mi pare interessante è che in Spinoza la democrazia è una conquista che non è soltanto formale. Non vorrei però essere frainteso contrapponendo la democrazia sostanziale a una democrazia formale, perché la democrazia nasce, in termini moderni, come procedura. L’unica cosa, infatti, sulla quale gli uomini, divisi da valori contrapposti, dopo aver sperimentato, dalle guerre di religione in poi, scontri sanguinosi, si sono accordati, è la decisione che è inutile battersi, pensando che tutti abbiano ragione, per le cose ultime. È meglio mettere le cose ultime, le nostre convinzioni, tra parentesi e accordarci sulle cose penultime, cioè sulle procedure. Però questo ha portato al fatto che, in sostanza, il problema del potere degli individui è stato, in termini spinoziani, lasciato al secondo livello, cioè quello della ragione politica, e non è mai passato, ed è dubbio che possa passare, al terzo livello, cioè quello dell’amore intellettuale (la politica come conoscenza delle cose particolari, come rispetto del singolo desiderio, della cupiditas di ciascuno di realizzarsi).
Quindi la prospettiva spinoziana è molto differente dalla nostra, sebbene vi potrebbe essere integrata; è la prospettiva di una democrazia in cui i cittadini sappiano che i loro poteri non vengono garantiti semplicemente da carte costituzionali, per nobili che siano, ma dal fatto che tutti i cittadini hanno potere, un potere relativamente uguale e non troppo differenziato. Nella quale, dunque, non ci sia chi detenga un monopolio, o un oligopolio, del potere, mentre gli altri non contino niente. Quindi in Spinoza c’è la piena consapevolezza che finché gli uomini non avranno potere non avranno razionalità, e che finché questo potere non sarà condiviso collegialmente ci sarà sempre qualcuno che opprime e qualcuno che sarà oppresso.
Riferimenti bibliografici
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