Progetto filosofi – Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche
Sergio Givone (Buronzo, 1944), Professore emerito di Estetica all’Università di Firenze, affronta i nodi cruciali del pensiero di Søren Kierkegaard (Copenaghen, 5 maggio 1813 –Copenaghen, 11 novembre 1855), filosofo danese considerato un precursore dell’esistenzialismo.
Segue il testo dell’intervista integrale
1.Professor Givone, può parlarci della biografia di Kierkegaard?
Cominciamo col dire che la biografia di Kierkegaard, quella biografia che davvero costituisce la trama della sua opera e a cui egli torna continuamente, è qualche cosa di molto povero. Infatti, sono pochi i dati esteriori di un qualche rilievo a nostra disposizione, relativi alla vita di questo pensatore. Si tratta di una biografia poverissima e tuttavia, di una biografia che rappresenta il punto di riferimento della sua riflessione filosofica e che è anche luogo di continua provocazione intellettuale. Kierkegaard rifletteva su alcuni elementi profondi, rimasti sempre oscuri, che egli stesso non ha voluto dichiarare. Egli ha fatto allusione alla colpa grave che avrebbe commesso suo padre e di cui tutta la famiglia, lui per primo, avrebbero portato il peso, e ha fatto anche riferimento a quello che lui ha chiamato il “pungolo nella carne”, un dolore profondo, che non c’è mai stato rivelato.
L’infanzia di Kierkegaard non fu felice. Il padre lo sottopose ad un’educazione cristiana molto severa, scambiando “un bambino per un vecchio”. A partire dal 1832, una serie di sciagure, che sconvolsero la vita della sua famiglia, sono interpretate da Kierkegaard come punizione di Dio per una grave colpa commessa dal padre. La natura di questa colpa resta un mistero. Ciò che è interessante in questo discorso è che Kierkegaard, come calamitato da queste pulsioni profonde, è tuttavia restio a dichiararle ed a esplicitarle. Questo è il motivo per cui si mette in maschera, assumendo degli pseudonimi. Egli comunica e tematizza le sue prospettive filosofiche attraverso pseudonimi, che sarebbe meglio definire “eteronomi”. Gli pseudonimi sono, infatti, quelli che rimandano sempre a una stessa identità soggettiva, mentre gli eteronomi implicano qualcosa come l’uscita da se stessi e l’adozione di un altro punto di vista. Il paradosso del suo restare legato alla propria biografia e quindi, in qualche modo, alla propria identità personale, da una parte, e dall’altra il bisogno di uscire da sé, assumendo sempre nuove maschere e nuovi volti, trova una risposta nel concetto kierkegaardiano di verità. Kierkegaard concepisce, infatti, la verità come qualche cosa che si dà soltanto all’interno di una prospettiva personale, come qualche cosa che noi incontriamo e sperimentiamo sempre e soltanto a partire da una vicenda che ha valore esistenziale, che riguarda l’individuo, il singolo, e non dice mai nulla circa la totalità, il sistema o il tutto. La verità dice sempre e soltanto chi è l’individuo e soprattutto che cosa significa la vita dell’individuo, quali sono, appunto, i riflessi ontologici di questa vita, e qual è il valore che quest’esistenza può avere. Da questo punto di vista non importa che la vita sia la mia, la tua o di un altro, anzi deve essere la mia, la tua e quella di un altro, perché è proprio nel gioco di questa alterità, di questo farsi altro rispetto a se stessi, che si rende possibile l’esperienza di verità. Ecco il paradosso: la verità non è mai un che di oggettivo, poiché la verità che interessa il filosofo non è certo la verità del “due più due fanno quattro”, vale a dire la verità che si può dimostrare ed oggettivare. La verità che interessa il filosofo è la verità in cui “ne va del filosofo” e cioè dell’uomo che pensa, del soggetto pensante, che non è mai, come volevano Cartesio prima e poi Hegel, una autocoscienza, cioè una forma a priori che vale per tutti gli uomini, ma è questo io, questo tu, questo altri e così all’infinito.
2. Professor Givone, quando si parla di filosofia, si tende a pensare che essa si occupi solo di verità universali, mentre, secondo Kierkegaard, l’organo della verità è il singolo. In che modo si può parlare filosoficamente di una verità al singolare?
Questa è la grande novità di Kierkegaard, una novità che sarebbe stata raccolta molti anni dopo la sua morte. La fortuna di Kierkegaard comincia infatti soltanto a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, continuando poi nel nostro secolo, fino ad ottenere quel riconoscimento che lo ha collocato davvero al centro del dibattito filosofico. La verità “declinata al singolare”: ecco il grande paradosso della filosofia kierkegaardiana. La verità che vale per me e che tuttavia non è soltanto qualcosa di soggettivo, perché altrimenti non sarebbe più la verità: questo è l’insegnamento di Kierkegaard. Quella di Kierkegaard è, quindi, anzitutto una filosofia del paradosso. Il paradosso consiste nel fatto che la verità per me – dunque quella verità che evidentemente è diversa dalla verità per te e dalla verità per l’altro – continua a essere qualcosa a cui io conferisco una validità universale. Non nel senso che posso dimostrare oggettivamente che è quella la verità, ma nel senso che la posso rendere oggetto di comunicazione. Al concetto di comunicazione Kierkegaard ha dedicato uno studio su cui è stata posta attenzione in anni più recenti, rispetto all’attenzione che la sua opera ha richiamato precedentemente: la comunicazione, in questa prospettiva, significa poter comunicare qualcosa che vuole convincere l’altro, pretendendo di valere non solo per me, ma anche per l’altro, sottraendosi tuttavia alla dimostrazione. È chiaro che su questo presupposto, la riflessione filosofica sul significato dell’esistenza, ma anche sul significato dell’essere, – quando, infatti, parliamo di verità, parliamo appunto della verità per me, che chiama in causa l’essere stesso – dà luogo a una sorta di “teatro del mondo delle possibilità” che il mondo offre, delle possibilità, quindi, entro le quali noi siamo chiamati a vivere e a prendere le nostre decisioni. Queste possibilità, naturalmente, non sono solo le une diverse dalle altre, ma sono anche le une irriducibili alle altre, perché, una volta tolto il concetto di totalità o di sistema, una volta detto che l’organo della verità è il singolo, è l’individuo, è l’individualità soggettiva, allora non è più possibile pensare a un orizzonte comune all’interno del quale le singole prospettive vengono riunificate, collocandosi ciascuna come un tassello di un grande mosaico. Ciascuna prospettiva è la verità tutta intera, ma, oltre a questo, è la verità prospettica, che è tale solo a partire da quella prospettiva. Da questo deriva un orizzonte non sistematico, un orizzonte che ignora qualsiasi possibilità di conciliare i singoli aspetti in un tutto, un orizzonte, quindi, drammatico, mosso, dove ci troviamo a vivere la nostra vita, a fare la nostra parte, senza un regista che tutto conosce e tutto dispone. Ciascuna di queste parti è abbandonata alla decisione di colui che la assume e la incarna.
3. Per Kierkegaard ciascuna scelta di vita incarna una prospettiva irriducibile alle altre: ogni singola verità è, quindi, intera e prospettica allo stesso tempo, in virtù della propria singolarità. Quali sono gli “stadi nel cammino della vita” che, secondo Kierkegaard, significano le varie prospettive vissute dai singoli individui?
Gli stadi nel cammino della vita, virtualmente, sono infiniti, perché infinite sono le possibilità di prospettare modelli entro cui fare le esperienze decisive, che ci mettono in questione, in cui “ne va di noi stessi”. Tuttavia Kierkegaard propone una tipologia o, per usare un termine più filosofico, una fenomenologia degli stadi, di quelle che sono appunto le prospettive fondamentali. Le prospettive fondamentali, secondo Kierkegaard, sono tre: quello estetico, quello etico e infine quello religioso. Lo stadio estetico è la prospettiva di colui che vive nell’attimo, di colui che fa della differenza la chiave della sua vita Questo significa disporsi nei confronti del mondo, degli altri e delle cose in un atteggiamento di sorpresa e di scoperta, cioè significa considerare tutto ciò che ci circonda come l’occasione per fare sempre nuove esperienze. Immaginiamo il seduttore. Il seduttore è una figura tipica della vita estetica. Il seduttore assume vari eteronomi nell’opera di Kierkegaard: non bisogna, infatti, confondere l’anonimo personaggio del primo volume di Aut-Aut, l’opera fondamentale di Kierkegaard, con Giovanni, il seduttore appunto, e poi con il Don Giovanni di Mozart, poiché sono tutti personaggi diversi. Tuttavia, a loro modo, tutti questi personaggi, incarnano appunto la figura del seduttore; ebbene, il seduttore è colui che sta nei confronti degli altri, non solo degli altri, ma anche delle cose che gli succedono, pronto ad accogliere tutto, pronto a scoprire in ogni cosa una occasione, una virtualità che altri non vedono. Il seduttore è colui che ha una raffinata capacità di cogliere le differenze. Ecco perché, nella vita estetica, siamo chiamati a essere maestri nell'”arte della differenza”. Tutto può suscitare in noi un senso di scoperta, un grande piacere: un fiore, o qualsiasi altra cosa ci circondi, se osservata in questa luce particolare che la esalta, può divenire per noi apprezzabile, trasformandosi in un intero mondo: l’esteta, il seduttore è proprio colui che sa far questo. Tuttavia nell’arte della differenza, secondo Kierkegaard, si cela un grande equivoco: l’equivoco tipico della vita estetica, l’equivoco che condanna, in definitiva, la vita estetica. Questo equivoco consiste nel fatto che l’arte della differenza, vale a dire la prospettiva di vita di chi davvero sa vivere come se tutto il mondo ed ogni ora della sua giornata fossero lì, sempre pronti per esaltarlo, aprendolo al possibile, in realtà è condannata ad appiattire tutto in una uniformità senza nessuna differenza. Il motivo di ciò è abbastanza ovvio, comunque inevitabile: se qualsiasi cosa suscita in me un’emozione grande e raffinata, allora non c’è più differenza tra le singole cose. Una bellissima donna procura la stessa emozione che una donna anonima, uno stralcio di fotografia produce la stessa emozione, o può produrre la stessa emozione, che una mirabile immagine mai vista.
4. La vita estetica, secondo Kierkegaard, è la prospettiva di colui che vive nell’attimo e che fa della differenza la chiave della sua vita. Tuttavia l’arte della differenza ha in sé un equivoco che, in definitiva, la condanna. Il seduttore che incarna il maestro dell’arte della differenza, è condannato, infatti, ad appiattire tutto in un’uniformità senza più nessuna differenza. Di che tipo di condanna si tratta?
È difficile dirlo, o meglio, si può dire che si tratta, allo stesso tempo, di una condanna filosofica e di una condanna religiosa ed etica, perché Kierkegaard sviluppa questo pensiero soprattutto a partire dalla vita etica. Ma si deve anche dire che questa è una condanna interna alla cosa stessa. Kierkegaard parla a questo proposito di “isterismo dello spirito”. Immaginiamo – dice Kierkegaard – l’esteta, colui che davvero ha saputo disporsi nei confronti delle cose con questa capacità di accoglierle tutte, di trovare in tutte un elemento di stupore, di meraviglia e di piacere. È come colui che disponendo di una bacchetta magica, quella bacchetta che rende viva la vita tutta intera, la usasse per pulirsi la pipa. Si tratta, infatti, di una magia strana, una magia che si autodistrugge. Ci sono casi estremi, il bel caso di Nerone per esempio: Nerone è un esteta, anzi rappresenta la quintessenza dell’estetismo, secondo Kierkegaard. Questo significa che appunto si può venir annientati dalla logica della ricerca continua del piacere, perché coloro che si dedicano a questo gioco hanno bisogno di sempre maggiori incentivi, sempre maggiori sollecitazioni, provocazioni ed eccitazioni. La loro sensibilità è quella di chi soffre di una “isteria”, cioè di una impossibilità di dare sfogo a questa sovreccitazione. L’isteria dello spirito è l’isteria propria – Kierkegaard dice – dell’uomo religioso mancato, di chi non riesce a uscire da questa contraddizione e ne resta vittima. Ma perché l’uomo religioso mancato? Perché è solo a partire dal punto di vista superiore e altro, rispetto a questo, che si riesce a mostrarne le contraddizioni interne.
5. Per quale motivo, secondo Kierkegaard, lo stadio etico rappresenta un gradino superiore rispetto allo stadio estetico?
La vita etica è il gradino superiore o, comunque, è una prospettiva che sta accanto, alla prospettiva di vita del seduttore. Possiamo usare il termine “superiore” nel senso che, secondo Kierkegaard, gli equivoci e le obiezioni alla vita estetica trovano una risposta a partire dalla vita etica. Tuttavia il termine “superiore” non è del tutto appropriato, perché anche la vita etica, a sua volta, è oggetto di una contraddizione che la rende impraticabile. Mentre la vita estetica era caratterizzata dalla discontinuità temporale, cioè dal fatto di vivere l’attimo, come possibile attimo della gioia, come l’occasione di continue e differenti emozioni, al contrario, la vita etica è, invece, caratterizzata dalla continuità e dall’impegno. Kierkegaard afferma che la vita etica è caratterizzata proprio dall’atto della scelta, cioè dal fatto che la scelta è una scelta sempre di nuovo confermata. La figura della vita etica è il matrimonio. Che cos’è il matrimonio se non un sì detto una volta, ma che, in qualche modo, viene continuamente ripetuto? Che cos’è un matrimonio riuscito, eticamente riuscito, se non un matrimonio che ripete la propria cerimonia iniziale ogni giorno? Questo significa scegliere. Scegliere che cosa? Anzi tutto scegliere. Non scegliere il bene piuttosto che il male, non scegliere di sposarsi – anche se la vita etica è la figura del matrimonio – piuttosto che di vivere esteticamente, secondo un certo libertinaggio, e così via, ma scegliere. Chi sceglie è fedele alla scelta e, in quanto fedele alla scelta, la rinnova, la ripete, scopre nell’atto dello scegliere una energia che colui che si abbandona a tutte le esperienze, così come vengono, non conosce. Per questo l’etico ha buon gioco a rispondere all’estetico: “Attenzione, tu credi di scegliere, tu credi di saper scegliere, scegli le donne più belle, i quadri più belli, le esperienze estetiche più belle, ma in realtà non scegli mai, perché sei scelto, sei giocato dalle occasioni che di volta in volta ti vengono proposte e si danno a te”. Chi davvero sceglie è l’uomo etico. L’uomo etico dice: “Non mi interessa che tu scelga il bene o il male: meglio scegliere il male, piuttosto che non scegliere, piuttosto che lasciarsi scegliere”. In quest’ottica, ciò che vale è il fatto che chi sceglie il male è sempre, in qualche modo, fedele alla scelta e scopre in questa scelta una energia che è comunque un dato positivo. A partire da questa positività, può essere avviata la costruzione della personalità e dare luogo a dei risultati positivi.
6. Nel famoso dramma di Sartre Il diavolo e il buon Dio, un personaggio, Goetz, compie la scelta del male. Sappiamo che per Kierkegaard la nota distintiva della vita etica è la capacità di scegliere, mentre, al contrario, il seduttore nello stadio estetico non sceglie mai , ma viene scelto dalle circostanze che gli offrono il piacere ed esaltano l’attimo. Se la scelta è la caratteristica della vita etica, anche la scelta del male, così come per il personaggio sartriano de Il diavolo e il buon Dio, può essere considerata una scelta etica?
Sono convinto, anche se Sartre non lo dice, che il riferimento sia alle pagine kierkegaardiane di Aut- Aut. Quando parliamo di Kierkegaard, abbiamo a che fare con il filosofo del paradosso, ma la pagina altamente paradossale di Aut-Aut relativa al tema della scelta nella vita etica è sicuramente un luogo a cui Sartre fa riferimento, quando, per l’appunto, presenta il suo Goetz come colui che si dedica totalmente sia al male che al bene, con la stessa energia, con la stessa forza e con lo stesso impegno. Quella di Kierkegaard, però, è una dialettica che viene portata al di là del limite in cui invece sembra arrestarsi Sartre. Tuttavia, quello che Kierkegaard dice e che, per l’appunto, Sartre non dice, è il fatto che nella fedeltà alla propria scelta, sia pure la scelta del male, c’è un elemento positivo. C’è, infatti, pur sempre, l’essere fedeli a se stessi, che è migliore rispetto al puro abbandono, al puro lasciarsi vivere ed al puro lasciarsi sedurre dalle occasioni. Non va dimenticato che il seduttore non è tanto colui che seduce, secondo Kierkegaard, cioè non è colui che rappresenta una sorta di forza seduttiva che trascina a sé le proprie vittime, ma è colui che crea intorno alla vittima una sorta di “alone del desiderio”, “di aura del desiderio” e la vittima sedotta, in tal modo, si sente amata. Proprio questo sentirsi amata come da nessun altro è ciò che costituisce l’elemento più caratteristico della seduzione. Suscitare il sentimento dell’essere sedotto è, quindi, proprio del seduttore, che, a sua volta, si lascia sedurre, nel senso che si offre alle occasioni che, di volta in volta, si danno. Resta vero che ciò che caratterizza la vita etica nei confronti della vita estetica è proprio la capacità di essere fedeli a se stessi, anche al proprio se stessi negativo.
7. Pur essendo, quella etica, una prospettiva di vita che permette di riconoscere la contraddizione insita nel modello del seduttore dello stadio estetico, essa contiene, a sua volta, un limite. Che cosa limita o, addirittura, condanna la dimensione etica?
Questo è un punto veramente chiave, delicato e difficile da capire. Kierkegaard scrivendo i cinque tomi di Aut-Aut , il cui titolo originale danese è Enten-Eller, si diffonde a descrivere la vita estetica, le sue strutture, i suoi equivoci, le sue contraddizioni, si dilunga poi a descrivere la vita etica, ad autopresentarla attraverso la figura dell’assessore Guglielmo, ma l’opera non arriva fino al punto di rottura. Bisognerà poi passare alle altre, successive, opere, quelle più propriamente dedicate a tematiche religiose, per capire in che senso la vita etica è a sua volta contraddittoria. La forza della vita etica consiste nell’essere autosufficiente, nell’essere fondata su di sé, nel non aver bisogno di nient’altro. L’uomo davvero etico, quello che è riuscito nel costruire la sua personalità in questo capolavoro che è la vita autosufficiente, è in pace con se stesso. Sa che gli si può fare qualsiasi violenza, ma il suo cuore è puro, nel senso forte del termine, egli è inattaccabile, nessuno gli può rimproverare niente, neanche Dio. L’uomo etico, in fondo, è l’uomo che ha imparato da Kant che la religione, se ha senso, è una religione che si risolve totalmente, non tanto nei limiti della ragione in generale, ma nei limiti della ragione pratica. Questo tipo di religione autorizza l’uomo etico a ritenersi salvato; ci si salva, appunto, con la pace del cuore, ci si salva sapendosi in pace con se stessi, sapendo di avere fatto tutto quello che si poteva fare, tutto quello che era giusto fare. Ma questa autosufficienza della pace interiore – ecco il limite, ecco l’equivoco di fondo della stessa vita etica – dal punto di vista della vita religiosa è il male. E’ il male radicale, poiché è la presunzione di autosalvarsi. Nel momento stesso in cui l’uomo etico, per così dire, celebra il suo trionfo, collocato su un piedistallo, asserragliato dentro una roccaforte che nessuno può smuovere, proprio nel momento della sua massima forza, compie un atto di superbia che lo condanna. Nel momento in cui crede di essere perfettamente al sicuro, egli si espone al peggiore dei peccati.
8. Il limite della vita etica, secondo Kierkegaard, è rappresentato dalla presunzione dell’autosufficienza che si manifesta nell’uomo quando egli vive esclusivamente nel rispetto delle norme morali, nell’orizzonte della ragion pratica kantiana. E’ corretto pensare ad un parallelismo con imperativi categorici kantiani della Critica della Ragion pratica?
Credo che si possa affermare l’identificazione dell’uomo etico di Kierkegaard con l’uomo della Ragion pratica. E’ vero, però, che ci sono anche molte differenze tra le due figure: l’uomo etico di Kierkegaard non fa mai riferimento a un imperativo categorico, a un ordine di valori assolutamente sottratto alla realtà esistenziale. La scelta è, per l’appunto, scelta non di una norma o in nome di una norma universale, categorica, ma è sempre scelta di se stessi, è scelta di qualche cosa che ha un carattere di assoluta singolarità, qualche cosa che ha la sua radice nell’esistenza del singolo e non nell’esistenza di qualcos’altro come lo spirito o la norma etica. Da questo punto di vista, quindi, non è esattamente vero che l’uomo etico di Kierkegaard è l’uomo etico di Kant. E tuttavia, sosterrei ugualmente la tesi dell’identificazione tra le due figure. L’uomo etico di Kierkegaard, come l’uomo etico di Kant, è, infatti, l’uomo autosufficiente, che non ha bisogno neppure di Dio. E questo è il suo peccato. Noi sappiamo che Kierkegaard detestava Kant: ci sono passi della sua opera in cui i riferimenti a Kant sono sempre in chiave negativa. Ora, d’altra parte, l’uomo etico è un uomo tutt’altro che negativo, viene presentato in Aut-Aut, come una persona degna, come uno che vive una possibilità di vita davvero degna di essere vissuta. Non dobbiamo dimenticare quell’immagine del “teatro del mondo”, caratteristica del pensiero di Kierkegaard, in cui prospettive diverse si incarnano in persone diverse e lì fanno valere le loro ragioni. Non esiste una ragione superiore alle ragioni del singolo, ma le ragioni del singolo non sono soltanto le ragioni del singolo: bisogna muoversi tra questi due poli. Da una parte affermare che non esiste una totalità tutta dispiegata in cui il singolo, anzi i singoli, trovano la loro vera e ultima collocazione, dall’altra non cadere neppure nel presupposto di tipo relativistico, per cui la verità in fondo non esiste perché esiste soltanto l’autoaffermazione dell’individuo. Il fatto è che il singolo vuole che le sue ragioni valgano anche per gli altri. Da questo derivano una lotta ed uno scontro e da questa lotta e da questo scontro balena una possibile esperienza di verità, ma sempre nel rispetto dell’autonomia dei personaggi. È come un romanzo in cui il romanziere, l’autore, dà la parola ai suoi personaggi, e la dà a pieno titolo, cioè non li sottomette a un’ipotesi che ricostruisce l’unità attraverso i personaggi. Ci sono delle differenze, quindi, tra l’etico in Kierkegaard e il rispetto degli imperativi categorici kantiani. Se da un lato Kierkegaard prende le distanze da Kant, l’uomo etico parla a nome suo, avvicinandolo al discorso kantiano. Non si ha l’impressione che Kierkegaard voglia criticare la vita, mostrando le incongruenze, le aporie e le contraddizioni della vita etica e tuttavia, queste incongruenze ci sono; la vita etica deve essere superata. La vita etica esce dal proprio limite aprendosi nella direzione della religione, e se vogliamo capire in che cosa consista questa apertura, allora dobbiamo ricorrere a una implicita critica di Kierkegaard alla figura kantiana dell’uomo etico. La figura kantiana dell’uomo etico è precisamente quella di chi è autosufficiente, fonda le sue scelte sulle sue sole forze, non chiede ragione a nessuno, ma pretende di salvarsi da sé. E tutto ciò è Kant, tutto ciò è peccato, secondo Kierkegaard. Kant è espressione di una prospettiva che Kierkegaard non può non condannare.
9. Professor Givone, è corretto dire che lo stadio religioso di Kierkegaard risolve e supera le difficoltà dello stato estetico e dello stadio etico, ma certamente non si può intendere il superamento nel senso dell’hegeliana Aufhebung. Qual è effettivamente la differenza del discorso kierkegaardiano rispetto al divenire della dialettica di Hegel?
Questa domanda va diritta al cuore del pensiero kierkegaardiano, un pensiero che corre lungo linee così difficili, così sfuggenti e, per altro verso, nette, che davvero si ha l’impressione sempre di deragliare. Superamento: ecco il rischio di deragliare che subito si presenta; difficile non parlare di superamento, perché la vita religiosa a suo modo risolve. La parola “risolvere”, così come la parola “superare”, sono inadeguate, ma le dobbiamo usare per spiegare come la vita religiosa dica qualcosa di più rispetto alla vita estetica e alla vita etica, per spiegare come la vita religiosa sfugga alle contraddizioni della vita estetica e della vita etica. La salvezza della religione – se posso tradurre così il pensiero di Kierkegaard – è la vera salvezza, l’unica autentica salvezza, visto che non è vera salvezza quella dell’uomo estetico, che anche cerca di salvarsi, ma di salvarsi nel mondo, di salvarsi disponendosi a una vita sottratta alla consumazione e sottratta al negativo. È desiderio di salvezza anche quello dell’uomo etico che cerca di salvarsi con le sue sole forze, nella fedeltà alle proprie scelte. E tuttavia la vera salvezza, secondo Kierkegaard, l’unica salvezza di cui davvero si possa parlare è quella religiosa. Dunque, se le cose stanno così, la vita religiosa presenta qualche cosa che va oltre le altre due vite, gli altri due stadi. Abbiamo qui a che fare con una sorta di superamento; ma, se parliamo di superamento, ricadiamo in un orizzonte che Kierkegaard aveva escluso da subito. L’orizzonte hegeliano è, infatti, quello in cui la verità non è la mia verità, la tua verità, ma è la verità del concetto, è la verità dell’idea, cioè è la verità che riguarda non il singolo, ma l’autocoscienza, il tutto, la totalità: ciò che dal punto di vista privato – così insegna la filosofia dell’autocoscienza hegeliana – è mezza verità o addirittura errore, dal punto di vista del tutto diventa un passo verso la verità. Kierkegaard rifiuta assolutamente, nel modo più fermo, questa ipotesi. La verità di cui egli parla è la verità per noi, la verità per me, la verità in cui “ne va di me”, dunque la verità in cui io, singolo, nella mia solitudine, nella mia precarietà, pretendo di esistere: è la verità in nome della quale la mia vita acquista un qualche senso. Ma, se le cose stanno così, è chiaro che non si può parlare di “superamento”, perché dire “superamento” significa pensare in termini di tanti tasselli che compongono un grande quadro, significa pensare in termini di prospettive limitate, in quanto prospettive finite, che trovano il loro compimento, la loro ragione ultima solo in un orizzonte più ampio.
10. Come si può pretendere che uno stadio abbia qualche cosa di più rispetto ad un altro stadio, se tutte le prospettive di vita sono sullo stesso piano?
Affermando che le diverse forme di vita sono modi di esperienza aventi lo stesso valore, si cade in una . Ma, se questa è la inevitabile conclusione, come possiamo vedere nella vita religiosa qualche cosa di più che risolve le contraddizioni della vita etica e della vita estetica? Questa è la difficoltà immensa in cui si dibatte la filosofia kierkegaardiana. Kierkegaard non tematizza questa difficoltà, cioè non tenta di presentarla così, in chiave argomentativa, né tenta di dimostrare come questo paradosso abbia una sua soluzione. Kierkegaard segue la via opposta: si abbandona totalmente a questo linguaggio capace di dire la diversità, di dire la pluralità delle prospettive, di dire il diverso e, nello stesso tempo, di sfuggire al relativismo, poiché legato a un’istanza ultima di verità. Kierkegaard gioca questa carta – diciamo così – e la gioca abbandonandosi a un prospettivismo che non è relativismo, ma è vero e proprio pensiero tragico. Che differenza c’é tra prospettivismo e pensiero tragico? Il prospettivismo è, come dire: le prospettive sono tante, tante come sono gli individui, ognuno rappresenta il mondo o quella fetta di mondo, a suo modo, ciascuno legittimato nel suo modo di vedere, nella sua prospettiva. Questo è il relativismo. Il pensiero tragico, invece, è quello di chi nega che esista un punto di vista superiore, un punto di vista risolutivo, a partire dal quale, attraverso la dialettica del superamento hegeliano (Aufhebung), tutto il grande disegno della storia, a cui gli individui partecipano, finalmente possa essere spiegato. Il pensiero tragico è quello che rifiuta questo punto di vista superiore e, tuttavia, dall’antagonismo, e dalla lotta tra le prospettive diverse del teatro esistenziale, pensa che possa venir fuori qualche cosa come “un di più”, un elemento di maggior convincimento, che tuttavia non è mai decisivo. Questo, dobbiamo capire, è per Kierkegaard il discorso filosofico, sia pure di quella filosofia particolare, come è la filosofia che lui pratica, quindi non la filosofia declinata all’universale, ma declinata al singolare. Questo discorso filosofico, della filosofia declinata al singolare, tuttavia, arriva solo fino a un certo punto. Fino al punto in cui l’individuo, il singolo, l’esistente reale deve prender le sue decisioni e le deve prendere in assoluta solitudine: nulla e nessuno lo garantisce. La figura di Abramo è la figura che davvero esprime questa assoluta solitudine, faccia a faccia di fronte di Dio.
11. Quale aspetto della figura di Abramo significa, per Kierkegaard, l’assoluta solitudine dell’uomo davanti a Dio?
Abramo viene provato da Dio, cioè viene messa alla prova la sua fede. Dio ordina ad Abramo qualcosa di assolutamente ripugnante per la coscienza morale, ma anche per la coscienza religiosa: uccidere suo figlio. Kierkegaard sottolinea non tanto il fatto che il comando di Dio contravvenga alla coscienza morale e alla coscienza religiosa ma afferma che Dio entra in contraddizione con se stesso. Da questo figlio, avuto da Abramo in vecchiaia, secondo la promessa, deve nascere un intero popolo, il popolo di Dio. Ed ora, Dio chiede ad Abramo il sacrificio proprio di quel suo figlio. La ripugnanza, quindi, è non tanto nei confronti della propria coscienza morale o religiosa che sia, ma nei confronti di Dio. E la prova consiste nel mettere Abramo di fronte a una evidente contraddizione di Dio stesso. Come si può avere fede in un Dio che si contraddice? Ebbene, Abramo è chiamato ad avere fede anche di fronte a un Dio che si contraddice. La contraddizione è il punto finale al di là del quale non si può andare solo in una logica filosofica, ma non in una logica di fede. Perché, per l’appunto, la fede è assoluta solitudine della decisione, è decisione presa in assoluta solitudine senza che nessuno, neanche la logica, possa garantire nulla. Ed è così radicale Kierkegaard in questo suo modo di prospettare la questione che racconta di nuovo, da prospettive diverse, il passo biblico in cui si dice di Abramo, che sale sul monte e va a uccidere il figlio. Come sappiamo, il testo biblico non ci dice tutto quello che si agita nel cuore di Abramo. Kierkegaard invece ci dice tutto ciò che si agita nel cuore di questo padre. E ciò che si agita nel cuore di questo padre è così complesso e dà luogo a punti di vista sul mondo così diversi, che egli non può fare a meno di raccontare e raccontare di nuovo la stessa storia più volte, per indicare la solitudine di Abramo, cioè la mancanza assoluta di una ragione ultima che faccia decidere per la fede o contro la fede. Abramo avrebbe mille ragioni per decidere contro la fede e, tuttavia, queste mille ragioni non sono sufficienti per fargli negare il Dio della promessa; tant’è vero che egli compie ciò che Dio gli ha comandato fino alla fine, fino alla fine è pronto, nonostante il suo cuore sia lacerato, a compiere quel sacrificio. Kierkegaard lo sa bene: si può anche interpretare tutto ciò in chiave puramente storica, come dire, se non, addirittura, etnologica, scoprire in quella vicenda il passaggio da una società in cui il sacrificio veniva praticato a una società che non pratica più il sacrificio e ne prende finalmente le distanze; si può risolvere il tutto in chiave di storia delle religioni e mostrare le affinità tra quell’episodio e altri episodi analoghi, come quello di Agamennone e suo figlio. Anche lì, anche nel caso di Agamennone, anche nel caso di questo sacrificio, abbiamo a che fare con la sostituzione, all’ultimo, di un animale. Ma Kierkegaard sottolinea l’unicità di ciò che accade nell’episodio di Abramo raccontato dalla Bibbia. E questa unicità, portata sul piano filosofico è quella che dimostra, appunto, il limite della filosofia. La filosofia è pronta, infatti, a trovare le ragioni, una sorta di rovesciamento continuo delle ragioni a favore delle ragioni contrarie, come avrebbe detto Pascal. La filosofia è pronta a inscenare un dramma dove lo scontro è estremo, ma alla fine resta la possibilità della fede, di quel sì, di quella adesione a Dio, o di quel rifiuto a Dio, che vanno al di là della filosofia stessa.
12. Già Pascal era giunto alla riflessione sulla fede come scommessa e decisione, come rischio. Quali sono i temi pascaliani, che Kierkegaard riprende?
L’argomento pascaliano del “pari”, della scommessa. Una scommessa che, naturalmente, non può essere argomentata. Ci possono essere delle ragioni che ci portano a scommettere per Dio e sappiamo che Pascal ha addirittura calcolato queste ragioni. Scommettere per Dio significa scommettere per qualche cosa che, se vinciamo, vinciamo tutto, e se perdiamo, perdiamo poco. Se vinciamo, vinciamo la vita eterna, se perdiamo, perdiamo la vita finita, mondana, che è poca cosa. Viceversa, scommettere contro Dio significa scommettere per qualche cosa, che, se vinciamo, vinciamo poco, vinciamo questa miseria che è la vita di quaggiù e se, invece, perdiamo, perdiamo tutto, perché perdiamo la vita eterna. Ma, naturalmente, queste sono soltanto delle ragioni, persuasive -Pascal lo sa bene- che persuadono soltanto colui che ha già scelto. Che cosa vuol dire Pascal con questo? Vuol dire che le argomentazioni, le giustificazioni vengono sempre dopo. Ciò che viene prima, assolutamente prima, è appunto qualche cosa che non avviene se non faccia a faccia nei confronti dell’Assoluto, nei confronti di Chi non dà ragione di sé, nei confronti di Chi, addirittura contraddicendosi, può chiedere qualche cosa che ci sconcerta e che ci sgomenta. E’ questa solitudine della decisione per la fede o contro la fede, che Pascal aveva sottolineato. C’è un pascalismo – se posso chiamarlo così – in Kierkegaard, anche se non ci sono tracce nella sua opera che ci fanno pensare che questo sia avvenuto consapevolmente, ma credo davvero che se dobbiamo stabilire delle parentele, delle affinità profonde, dobbiamo stabilirle lungo quella linea che da Pascal porta a Kierkegaard, una linea di pensiero fondamentalmente religioso. Ma – attenzione – di una religiosità che io non esiterei a definire “tragica”, nel senso del suo nutrirsi di contraddizioni, di tensioni contraddittorie che non hanno da nessuna parte la loro soluzione ultima. La soluzione ultima è il singolo, quel singolo da cui parte la filosofia di Kierkegaard e che è davvero, nella prospettiva kierkegaardiana, l’organo della verità.
Sergio Givone ricorda la biografia di Kierkegaard e parla della concezione di verità legata all’esistenza del singolo della filosofia kierkegaardiana. Ciò che rende ancora verità questa verità declinata al singolare non è la sua dimostrabilità ma la dimensione della comunicabilità. Kierkegaard indica le tre prospettive che ritiene fondamentali, “gli stadi nel cammino della vita”: l’estetico, l’etico ed il religioso. L’esteta vive nell’attimo, considera il mondo occasione per fare sempre nuove esperienze. Se l’esteta ha il limite di essere sempre sedotto dalle occasioni e di lasciarsi scegliere, la vita etica è caratterizzata dalla continuità della scelta, non importa se del bene o del male. La forza di questa vita è anche il suo limite: nella autosufficienza e nella tranquillità interiore che l’uomo etico ha raggiunto si cela il male radicale della presunzione di salvarsi da sé. Givone sottolinea gli aspetti di affinità tra l’uomo della Critica della ragione pratica kantiana e l’uomo etico di Kierkegaard e mette in luce le differenze tra il procedere della filosofia hegeliana e quello della riflessione kierkegaardiana. La vita religiosa sfugge alle contraddizioni degli altri due stadi. Abramo incarna per Kierkegaard questa vita, in quanto mostra come la fede sia assoluta solitudine della decisione senza alcuna garanzia, neanche quella della ragione e della filosofia. Givone trova una religiosità tragica simile a quella di Kierkegaard nel nucleo della argomentazione di Pascal sulla scommessa.
Riferimenti bibliografici
Sergio Givone – La questione romantica, ed. Laterza 1992
Søren Kierkegaard – Aut-aut, ed. Mondadori 2016
Søren Kierkegaard – Diario del seduttore, ed. BUR 2005