Progetto filosofi – Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche
Gianteresio Vattimo, detto Gianni (Torino, 4 gennaio 1936), è un filosofo, accademico, tra i massimi esponenti della corrente postmoderna, è teorizzatore del pensiero debole.
in tale intervista, Vattimo spiega il concetto di verità nella poesia così come nell’arte, puntando l’attenzione al tema dell’esperienza estetica.
Di seguito, il testo dell’intervista integrale
Professor Vattimo, in che senso dunque la poesia “dice” il vero?
La poesia non dice verità a livello della proposizione corrispondente all’oggetto, ma “dice” – esprime, rappresenta, mostra – qui è difficile qui usare un verbo adeguato – la verità dell’orizzonte a cui apparteniamo quando poi diciamo delle singole verità. Quando noi parliamo di poesia e verità, per esempio, è abbastanza facile cadere in un errore di banalizzazione. Che cosa dice una poesia, quale verità enunciabile ricaviamo da una poesia di Pascoli, di D’Annunzio, di Carducci? Quando cerchiamo di volgere la verità della poesia in singole verità proposizionali, per lo più ricaviamo delle proposizioni banali: “Gli uomini sono mortali”, “La vita è difficile”, “L’esistenza è sempre schiacciata dal problema della libertà”. Questo vuol dire che, se guardiamo alla verità della poesia, la prima cosa a cui siamo richiamati è una nozione di verità non proposizionale, non descrittiva, non misurata sul principio della conformità. Allora, se c’è una verità nella poesia, questa verità è pensabile solo come apertura originaria dentro cui siamo gettati, orizzonte all’interno del quale possiamo diventare consapevoli di noi stessi, che è dunque cosa ben diversa da una verità enunciata come proposizione descrittiva all’interno di questo stesso orizzonte.
Il rapporto con questa verità è poetico anche perché non può essere descrittivo-proposizionale o scientifico: se noi ci sforziamo di afferrare questa verità, ci accorgiamo che è impossibile renderla in termini di proposizioni dimostrabili, oggettivabili. Con esse siamo in un rapporto che si potrebbe chiamare “abitativo”, nel senso che c’è nella nostra esistenza, alla base di ogni nostro enunciato tematico, una più originaria appartenenza che noi non riusciamo a tematizzare. Noi non possiamo dire che, poiché non riusciamo a tematizzarla, dobbiamo trascurarla. Trascurarla, infatti, significherebbe lasciarsi guidare da pregiudizi che noi non sospettiamo neanche di avere – il che è abbastanza pericoloso. Sapere di appartenere ad un orizzonte che non possiamo oggettivare davanti a noi – perché ciò è contraddittorio con la nozione stessa di orizzonte -, significa già sforzarsi di fare esperienza di questo orizzonte con altri mezzi. In fondo, tutta la storia delle arti nella storia della cultura è questo.
Le arti non hanno mai detto verità utili, utilizzabili, sistemabili in un trattato, e tuttavia ci sono sempre state. Controbattere sostenendo che ciò è accaduto solo perché l’uomo ha inevitabilmente anche un aspetto di “oziosità” è una spiegazione un po’ troppo banale, soprattutto se si pensa alla vita degli artisti, all’interesse che la gente porta all’arte, anche all’importanza sociale che l’arte ha sempre avuto nella cultura. Che l’arte sia messa in opera della verità tende a spiegare meglio tutte queste cose; c’è una verità più originaria delle singole verità che possiamo enunciare e il rapporto con questa verità più originaria non si può per definizione tematizzare in proposizioni enunciabili: esso costituisce il senso dell’esperienza estetica. Nella pittura, nella musica, nella poesia noi mettiamo in opera, in qualche modo, questa apertura della verità. Heidegger naturalmente collega a questo anche tutto un altro insieme di contenuti filosofici. Uno, in modo particolare, è l’idea che la verità non sia sempre la stessa in tutte le epoche, e cioè che non è vero che tutti gli uomini sono sempre gettati in un orizzonte di verità sempre uguale, ma che ci sono delle cesure, dei cambiamenti nell’orizzonte di verità in cui noi ci troviamo. Anche questa è una cosa che si capisce, se si pensa a teorie diverse da quella heideggeriana, ma forse a questa vicine nell’intenzione. Intendo riferirmi, ad esempio, a una teoria come quella di Thomas Kuhn, ad esempio, che parla dei “paradigmi”, secondo cui le scienze provano, dimostrano proposizioni, però all’interno di un insieme di presupposti, di assiomi, che costituiscono appunto il paradigma all’interno del quale si prova o si falsifica una proposizione. A sua volta, il paradigma, anche per Kuhn, non è oggetto di prova o di falsificazione, perché altrimenti si esigerebbe un altro paradigma più ampio all’interno del quale si possa provare qualcosa o falsificare qualcosa. Quindi, anche in questo caso, i paradigmi all’interno dei quali si muovono le verità della scienza sono storicamente dei fatti complessi.
Certamente non si può dire che essi siano dei fatti irrazionali, però sono dei complessi eventi storici a cui gli scienziati appartengono e all’interno dei quali trovano o falsificano proposizioni. Ebbene, se noi pensiamo a questo, possiamo avere un’idea, ancora una volta, di che cosa Heidegger intenda quando dice che l’arte è “messa in opera della verità”. “Messa in opera” che può essere storicamente mutevole, proprio perché le epoche, i paradigmi, non sono sempre gli stessi.
È la ragione per cui l’arte è una storia e non accade una volta sola. Altrimenti basterebbe una sola opera d’arte, come ad esempio una tragedia greca, per tutte le epoche. Ma non è così, perché oltre alla tragedia greca, esiste la Divina Commedia o l’opera di Shakespeare, tra le quali noi cogliamo delle differenze: in queste diverse opere d’arte si aprono dei mondi diversi, dei mondi storici all’interno dei quali l’umanità del passato è vissuta e dentro cui ancora viviamo noi, mediandoli con il nostro mondo storico, con i nostri poeti, con le nostre opere d’arte.
In Heidegger l’esperienza estetica come esperienza di incontro con la verità è soprattutto un’esperienza poetica. Perché, professor Vattimo, proprio la poesia, perché i poeti, per dirla con il titolo di un saggio di Heidegger, hanno un ruolo privilegiato?
Perché nel saggio Sull’origine dell’opera d’arte di Heidegger c’è anche una sorta di riconduzione di tutte le arti alla poesia come arte della parola. Ora questo è un tema naturalmente complesso, forse anche controverso tra gli interpreti di Heidegger, però Heidegger certamente ritiene che, in qualche senso, la funzione inaugurale di apertura di un mondo storico che l’opera d’arte ha, si realizza in modo speciale, in modo privilegiato nell’arte della parola. “Apertura di un mondo storico” può voler dire due cose. Svelamento di un mondo storico – e in questo caso ci troviamo in temi che sono familiari alla storia dell’estetica e della filosofia. Hegel, per esempio, sosteneva che, almeno in certe fasi dello sviluppo dello spirito, la verità dell’epoca, la verità dello spirito di un’epoca, si rivela nell’arte e non nella religione o non nella filosofia.
L’estetica hegeliana sostiene che nella storia dell’umanità, l’età in cui l’arte è il luogo supremo di rivelazione dello spirito dell’epoca è stata l’età classica greca. C’è un’epoca nella storia dello spirito in cui lo spirito si rivela a se stesso, si documenta, in qualche modo, più adeguatamente nell’arte che non nella filosofia o nella religione, mentre, ad esempio, lo spirito medievale si rivela piuttosto nella religione cristiana; il senso del gotico è il senso di un’arte la cui verità è però la religione. Bene, noi possiamo intendere in questi termini la posizione di Heidegger, per cui nell’opera d’arte si apre un mondo storico, nel senso che in essa vi si rivela. Ma l’originalità di Heidegger è nell’idea che nell’opera d’arte si “inaugura” un mondo storico: non solo si apre, nel senso che si svela più adeguatamente, ma accade prima di tutto lì.
Il linguaggio è uno degli strumenti fondamentali attraverso cui noi accediamo al mondo; non accade che prima noi vediamo il mondo e poi troviamo le parole per descriverlo, perché, come mostrano le nostre esperienze anche a livello psicologico, se non abbiamo la parola, in un certo senso non vediamo la cosa. Secondo Heidegger, è soprattutto il linguaggio quello che ci dà accesso al mondo. Noi ereditiamo un insieme di capacità per vedere il mondo, ereditando un certo linguaggio, la nostra lingua naturale, che però non è naturale in quanto eterna; è naturale nel senso che è la nostra lingua madre, la lingua che impariamo quando siamo bambini. Ebbene, questo linguaggio, che non è sempre uguale – le lingue sono mai state tutte eguali nel corso della storia – costituisce un fatto naturale e storico insieme. In quanto fatto storico ha dei momenti principali in cui ovviamente cambia. Heidegger identifica i momenti di “inaugurazione” di una lingua di un’epoca con certi grandi eventi poetici. Noi diciamo abitualmente a scuola che Dante è il padre della lingua italiana, che la traduzione della Bibbia di Lutero ha fondato il tedesco moderno, che Shakespeare è, quasi come Dante, il padre della lingua inglese, eccetera. Talvolta questo lo diciamo in maniera banalizzante, ma per Heidegger c’è una verità in tutto ciò molto profonda, e cioè che nella poesia si inaugurano svolte decisive delle lingue naturali. Quindi, anche in questo senso, l’opera d’arte “mette in opera la verità” e la mette in opera come opera d’arte linguistica, perché dal punto di vista di Heidegger, anche per interpretare storicamente delle opere d’arte non linguistiche – per esempio la pittura di Michelangelo o di Goya – noi, per esprimerne il carattere aprente, inaugurale, utilizziamo delle parole.
Riferimenti bibliografici
Heidegger Martin, L’origine dell’opera d’arte, ultima trad. it.. 2000
Hölderlin Friedrich, Essenza della poesia, ultima trad. it.: 2019
Heidegger Martin, Saggi e discorsi, ultima trad. it.: 2015
Heidegger Martin, L’arte e lo spazio, ultima trad. it.: 2008
Vattimo Gianni, Introduzione all’estetica, 2010