Progetto filosofi – Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche
Gianteresio Vattimo, detto Gianni (Torino, 4 gennaio 1936), è un filosofo, accademico, tra i massimi esponenti della corrente postmoderna, è teorizzatore del pensiero debole.
in tale intervista, Vattimo spiega il concetto di verità nella poesia così come nell’arte, soprattutto nel pensiero di Martin Heidegger (settembre 1889 – Friburgo in Brisgovia, 26 maggio 1976) e Hans Georg Gadamer (Marburgo, 11 febbraio 1900 – Heidelberg, 13 marzo 2002)
Di seguito, il testo dell’intervista integrale.
Professor Vattimo, cominciamo questa nostra conversazione, sul tema della poesia, ricordando il titolo di un libro che Lei scrisse e pubblicò nel 1968. Si intitolava Poesia e ontologia. Che cosa voleva indicare, mettendo insieme questi due concetti, quello di “poesia” e quello di “ontologia”?
Era un modo di annunciare fin dal titolo uno degli assunti teorici, anche un po’ polemici, del libro. L’idea fondamentale era che l’estetica novecentesca, o anche del tardo Ottocento – ma forse l’estetica postkantiana in generale – avesse teso ad isolare l’arte dal dominio della verità. Si può portare come esempio la teoria estetica di Croce, secondo cui nella dialettica dei distinti i predicati che si possono attribuire all’esperienza estetica, all’arte, sono bello o brutto, ma non vero o falso. Questo significa che l’esperienza estetica non ha a che fare con l’esperienza della verità. Un tale atteggiamento, che è stato dominante nell’estetica filosofica del Novecento, era già stato discusso anche prima della pubblicazione del mio libro da autori – a cui io mi rifacevo – come Gadamer o come Heidegger. Gadamer in particolare, nel suo libro del 1960, Verità e Metodo , era partito proprio da una critica di quella che lui chiamava la “coscienza estetica” – potremmo chiamarla coscienza “estetistica” – cioè muovendo dalla critica di quell’atteggiamento che appunto considera l’esperienza dell’arte e del bello come completamente scissa dall’esperienza del vero. Gadamer argomentava, secondo me giustamente, che questo estetismo, riferito soprattutto alla filosofia dell’arte del Novecento, era il corrispettivo dello scientismo metodologistico del positivismo. Se si domanda perché nell’esperienza estetica non vi siano il vero e falso, si tende a rispondere che questi appartengono esclusivamente a quelle esperienze che si lasciano organizzare dal metodo scientifico. Ecco perché, tra l’altro, Verità e Metodo si intitola così: Gadamer voleva indicare già dal titolo della sua opera che il suo problema era quello di rivendicare l’esperienza di verità che si fa al di fuori dei campi metodologicamente organizzati come quelli della scienza.
Ora, uno dei campi classici, o insomma l’emblema stesso di ciò che non è metodico, è l’esperienza estetica.
Gadamer, che poi allargava il discorso anche all’esperienza delle scienze storiche, delle scienze umane – perché poi era questo il suo obiettivo più generale – muoveva dal recupero in senso veritativo dell’esperienza che sembra essere la più lontana dal vero e dal falso, vale a dire appunto l’esperienza estetica. Io procedevo in questa stessa direzione anche con riferimenti che non mi sembrava di trovare già in Gadamer, cioè sviluppando l’idea che le avanguardie artistiche del Novecento erano proprio una forma di rivolta degli artisti, dell’arte militante, contro l’estetismo dell’estetica filosofica. Così, mentre Croce oppure i neokantiani tedeschi sostenevano che l’esperienza estetica non ha nulla a che fare con il vero o il falso, gli artisti pensavano invece che l’arte dovesse uscire dal mondo asettico del museo, della galleria o della pura esperienza della poesia che si raccomandava per la sua sonorità, per la sua bellezza strutturale, per le forme, senza riferimenti esistenziali. In quel libro, l’esperienza delle avanguardie novecentesche mi pareva – e mi pare ancora oggi – interpretabile come una rivolta dell’arte contro la sterilizzazione a cui sembrava volerla condannare l’estetica filosofica della sua stessa epoca. E naturalmente, ancora una volta, il riferimento principale – per me come del resto per lo stesso Gadamer – era la filosofia di Heidegger; questo in parte perché per me essa è stata un’esperienza filosofica di fatto dominante, in parte perché mi sembra che sia oggettivamente fondamentale per il pensiero del Novecento.
È con Heidegger, in fondo, che la poesia è stata completamente ricondotta all’ambito della verità, fuori dalla prospettiva limitata in cui l’aveva collocata l’estetismo filosofico del primo Novecento. Naturalmente i riferimenti a Gadamer e a Heidegger hanno due valenze differenti, perché in Gadamer il fatto che ci sia un’esperienza di verità nella poesia, e in genere nell’arte, si giustifica dal punto di vista di una concezione della verità che risale a Hegel prima che a Heidegger. Io riassumevo la posizione di Gadamer – mi sembra utile questa formula per ricordarla – dicendo che “si fa esperienza di verità, quando si fa vera esperienza”. Se noi teniamo presente questa espressione, capiamo perché la lettura di un’opera d’arte, l’incontro con un’opera d’arte può essere esperienza di verità; basti pensare all’esperienza che facciamo quando leggiamo un romanzo: ci cambia la vita, forse non così radicalmente, ma certo cambia, modifica la nostra visione del mondo. Ora, effettivamente, questa concezione è di origine hegeliana: la verità è, come dire, l’incontro con un’alterità che noi assimiliamo, e quindi che non lasciamo stare nella sua estraneità, ma, assimilandola, diventiamo altri da quello che eravamo.
In Gadamer è molto importante questa idea dell’esperienza come Erfahrung. La parola tedesca Erfahrung ha da fare anche col viaggiare, col fahren, e implica un mutamento: possiamo fare l’esempio di un individuo che ha viaggiato molto, e che, quando fa ritorno a casa, non può essere esattamente lo stesso, perché ha imparato altre cose, sa altre cose, e queste cose sono diventate parte della sua conformazione mentale. Se compiamo una vera esperienza, e cioè qualche cosa che ci costringe, ci spinge a cambiare, facciamo un’esperienza di verità. In questo senso, l’incontro con l’opera d’arte, che è l’incontro con una visione del mondo “altra”, che ci scuote, o anche semplicemente che ci arricchisce, rappresenta il senso dell’esperienza del vero che si fa nell’arte e in genere in tutti quei campi, come per esempio la conoscenza filosofica, la conoscenza storica eccetera., che alla mentalità di ispirazione positivistica del tardo Ottocento sembravano escluse dal campo del metodo scientifico. Certo, la storia non sarebbe capace di verità scientifica, se la scienza fosse solo la conoscenza di leggi generali. Allora il punto è: questi saperi che non hanno da fare con principi generali, con leggi generali, ma con fatti specifici, sono saperi capaci di verità? Direi di sì, se l’esperienza che facciamo in questi saperi è una vera esperienza. L’argomento di Gadamer, che sta alla base di Verità e Metodo, si muove attorno a questa prospettiva.
È stato Heidegger che, nel saggio intitolato L’origine dell’opera d’arte, ha chiarito, forse più radicalmente di quanto non lo abbia fatto Gadamer, l’incontro con l’opera d’arte come un’esperienza di verità. Vuole ripercorrere i motivi principali di questo saggio?
Nel saggio L’origine dell’opera d’arte (Der Ursprung des Kunstwerkes ), che è del 1936, Heidegger chiama l’opera d’arte una “messa in opera della verità”. Qui effettivamente troviamo la possibilità di parlare di “poesia e ontologia” o di “poesia e filosofia” o di “poesia e verità” o di “arte” in genere. In che senso l’opera d’arte è “messa in opera della verità”? Prima di tutto è ovvio che, per parlare di opera d’arte come “messa in opera della verità”, bisogna avere una certa concezione della verità, che in Heidegger non è, e non può essere, quella della verità come corrispondenza di una proposizione a uno stato di cose. Molto spesso, naturalmente, la tradizione ha parlato di verità della poesia, ma, poiché ne ha parlato in riferimento a questa concezione della verità come enunciazione vera di stati di cose, cioè in termini di proposizioni che corrispondano a uno stato di cose, ha sempre dovuto concepire la poesia secondo il motto latino del miscere utile dulci, che esprime l’idea per cui nella poesia si possono dire delle verità, descrivendo, per esempio, come stanno le cose con l’essenza dell’uomo o le leggi morali, eccetera. Perché tali verità vengono espresse in poesia? Una ragione può essere, ad esempio, che in questo modo la gente le impara meglio; anche i proverbi, in genere, si formulano come dei versetti, espressi in termini “poetici”, con delle metafore.
Sembrerebbe dunque che vi sia una verità della poesia, che è la stessa verità che si può dire in proposizioni astratte, ma presentata con termini immaginosi, metaforici, perché piace di più o si ricorda meglio. Ora, non è questo il senso in cui Heidegger parla di “una messa in opera della verità”, perché per lui la verità, prima di essere la descrizione oggettiva di uno stato di cose, è l’apertura di un orizzonte di una possibile descrizione dello stato di cose. Non è tanto difficile da capire: noi descriviamo uno stato di cose usando degli strumenti, dei termini, dei paradigmi, dei presupposti, i quali per noi sono alla base della possibilità di descrivere in modo veritiero quello stato di cose. Ma i paradigmi, l’”apertura”, per così dire, il sistema dei presupposti in base a cui possiamo dire la verità, nel senso di descrivere validamente lo stato di cose, tutto questo insieme precede questa verità espressa come corrispondenza nella proposizione alla cosa. E questo insieme difficilmente è oggetto, a sua volta, di una descrizione vera, perché per essere descritta veridicamente avrebbe bisogno di un altro sistema di presupposti, di un’altra apertura e e così via.
Si comprende benissimo che, procedendo in questo modo, si potrebbe risalire all’infinito. Heidegger non vuole tanto risalire all’infinito per distruggere logicamente l’idea di verità, ma richiamare la nostra attenzione su un fatto che era anche, in fondo, alla base della critica marxiana dell’ideologia, ossia che quando noi enunciamo una proposizione vera, presupponiamo un sistema di criteri che a sua volta non enunciamo in una proposizione vera, ma all’interno dei quali in qualche modo siamo – come dice Heidegger – “gettati”, ci “apparteniamo”, “ci siamo”: è il nostro equipaggiamento. I nostri occhi noi non li descriviamo, mentre descriviamo ciò che vediamo con gli occhi; quando ci mettiamo a studiare i nostri occhi, magari li studiamo in base a un’immagine, che però guardiamo pur sempre con i nostri occhi, che, nel momento stesso in cui li usiamo per guardare, non possiamo vedere. È una cosa abbastanza ovvia, che però filosoficamente diventa importante, perché in fondo è alla base della stessa idea che la poesia sia capace di verità.
Riferimenti bibliografici
Heidegger Martin, L’origine dell’opera d’arte, ultima trad. it.. 2000
Hölderlin Friedrich, Essenza della poesia, ultima trad. it.: 2019
Heidegger Martin, Saggi e discorsi, ultima trad. it.: 2015
Heidegger Martin, L’arte e lo spazio, ultima trad. it.: 2008
Vattimo Gianni, Introduzione all’estetica, 2010