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Progetto filosofi – Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche
Francesco Valentini (1924 – 2009), ordinario di Filosofia Teoretica all’Università La Sapienza di Roma, definisce la politica come azione in senso eminente, azione compiuta in nome della comunità, dove per comunità s’intende propriamente lo Stato. Se colui che agisce proietta i suoi fini su un futuro che ancora non conosce, il discorso intorno ai fini non può essere dichiarativo, e, perciò, suscettibile di un valore di verità, ma esortativo e oratorio. La validità dell’azione politica non è misurata unicamente dal suo successo. Anche per Machiavelli, il Principe che conquista lo Stato con la scelleratezza non è encomiabile allo stesso titolo di quello che lo conquista con la virtù. E, secondo Aristotele, il fine dello Stato non è il vivere, ma il vivere bene, la vita virtuosa o, addirittura, il bello.
Professor Valentini, Lei ha dedicato molti anni del suo lavoro di ricerca allo studio della politica, della filosofia politica. Come possiamo definire il concetto stesso di politica?
Io credo che una definizione potrebbe essere questa: per politica si intende tutto ciò che concerne l’attività di una comunità organizzata. Quando diciamo comunità organizzata, intendiamo dire una comunità cosciente, ossia capace di prendere delle decisioni, di porsi dei fini, quindi di vivere autonomamente.
Proprio per questa caratteristica del fare della comunità – la comunità che prende delle decisioni – è evidente che, all’interno della comunità, vengono delegati alcuni suoi membri, a cui tocca prendere queste decisioni, ovvero decidere in nome della comunità. E finora si è determinato sempre questo dualismo – anche se si cerca sempre di colmarlo il più possibile – tra il governante e il governato. Questo dualismo pone dei problemi, quei problemi che generalmente si sogliono indicare come problemi di potere. Il governante, che rappresenta la comunità, che agisce nell’interesse reale, o presunto, della comunità, ha un certo potere sulla comunità. L’azione politica che il governante fa in nome della comunità, può concernere sia i rapporti dei membri della comunità fra loro, i rapporti reciproci dei membri della comunità – e abbiamo la cosiddetta politica interna- sia i rapporti della comunità con altre comunità – e abbiamo la cosiddetta politica estera.
Quando noi oggi, anche nel linguaggio comune, parliamo di stato, in sostanza alludiamo alla comunità per eminenza, cioè alla comunità interamente autosufficiente, alla comunità che non riconosce superiori, che emana delle norme, e che essenzialmente ha il monopolio della violenza. Quindi lo Stato è appunto la comunità che emana, che prende delle decisioni di ultima istanza, cioè delle decisioni che dipendono soltanto da lui, cioè a dire che non hanno un ulteriore controllo. Questo è appunto lo Stato.
La politica ha una cattiva stampa, in generale e soprattutto nel nostro tempo. A che cosa è dovuta questa cattiva fama della politica?
Questa è dovuto probabilmente, al fondo, al fatto che la politica è il grado eminente del fare, cioè dell’agire. Chi agisce, in generale – anche senza pensare all’azione politica in senso stretto – è sempre in un atteggiamento progettuale: mira al futuro, si propone dei fini, e questi fini li prevede, ma ancora non li conosce. La coscienza dell’azione non è – a stretto rigore – una coscienza veritiera, perché fa, nella migliore delle ipotesi, delle previsioni, delle previsioni probabili. Chi agisce, in un certo senso, non comprende fino in fondo la sua azione. Potremmo parlare perciò di un carattere necessariamente ideologico dell’azione.
La politica, che è azione in senso eminente, la politica che è azione fatta nel nome della comunità, presenta queste caratteristiche in grado sommo, onde il carattere, direi non veritiero, direi non indicativo, ma esortativo ed oratorio del linguaggio politico.
Tanto è vero che addirittura Platone diceva che il politico deve dire il falso, sia nei confronti dei nemici, sia nei confronti dei cittadini. Quando si dice: “deve dire il falso”, non bisogna prenderlo alla lettera, proprio per quello che si diceva poco fa, perché, essendo l’azione politica rivolta al futuro, per essa non si pone il problema del vero e del falso, ma c’è piuttosto una situazione di coscienza imperfetta, che fa dire a chi guarda dall’esterno o a chi osserva comunque l’azione politica, che questa azione politica non è veritiera.
Ecco in che senso, quando noi diciamo che la politica non ha un linguaggio veritiero, non dobbiamo appunto prendere alla lettera tutto questo, ma dobbiamo renderci conto del suo carattere di azione, in senso eminente, cioè di progetto, e quindi del suo porsi al di fuori, diciamo, del dilemma del vero e del falso. Sarà lo storico di domani, sarà il filosofo di domani a stabilire se si trattava in questo linguaggio appunto di una menzogna e non invece di una esortazione, che ha avuto la sua efficacia.