Cecilia Mangini (Mola di Bari, 31 luglio 1927 – Roma, 21 gennaio 2021) è stata una regista, sceneggiatrice e fotografa italiana. È considerata la prima documentarista donna in Italia.
Infanzia e formazione
Fin da ragazza, Cecilia Mangini comincia ad interessarsi di fotografia e di cinema, soprattutto grazie alla frequentazione dei CineGUF. Alla fine della guerra, viene mandata poco più che adolescente in un collegio svizzero per un soggiorno che le risparmi le durezze della ricostruzione post-bellica: qui ha modo di incontrare per caso il cinema di Jean Renoir e resta folgorata dal suo capolavoro, La grande illusione. Tornata a Firenze, riprende la passione per il cinema e inizia a frequentare i neonati cineclub democratici, che in poco tempo la mettono di fronte alle migliori pellicole del cinema internazionale sino ad allora soggette alla censura fascista. Viene quindi conquistata dal cinema del neorealismo.
Gli anni dei reportage cinematografici
Nel 1952, venticinquenne, si trasferisce a Roma, per lavorare nella federazione nazionale dei cineclub, dove conosce e sposa il regista Lino Del Fra. A Roma inizia la non usuale attività di fotografa, “non un mestiere per signorine”: soprattutto perché lo interpreta rinunciando alla fotografia di posa in favore di quella di strada, perché proprio “nelle strade l’umanità vive, si dibatte, si diverte, soffre. Tutto questo è a disposizione di chiunque abbia una macchina con un obiettivo”. Un’attività che la porterà a collaborare con importanti riviste cinefile come Il Punto, Cinema Nuovo, Cinema ’60, L’Eco del cinema, oltre che a immortalare scatti su e giù per la Penisola.
Nell’estate del 1952 parte assieme al marito per le isole Eolie e, con una fotocamera Zeiss Super Ikonta 6×6, documenta le condizioni di vita e di lavoro sulle isole di Lipari e Panarea.
L’esordio nel cinema documentario
Createsi, per via legislativa, le condizioni per il fiorire di cortometraggi non di finzione, il giovane produttore Fulvio Lucisano le propone di dedicarsi al cinema documentario: sarà la prima donna in Italia a cimentarsi nel genere. In effetti, come Cecilia Mangini ha tenuto a dire in anni recenti, “io sono una documentarista. Chi fa documentari è assai più libero del regista di film di finzione, ed è per questo, per la mia indole libertaria con cui convivo fin da bambina, che ho voluto essere una documentarista. Il documentario è il modo più libero di fare cinema e non solo dal punto di vista produttivo perché resta un genere povero: mantiene una permeabilità alle sorprese della realtà che la finzione non si può permettere proprio perché vincolata al denaro”. Esso è “lo sguardo che cattura la verità” perché “acchiappa ciò che è unico” e disappanna gli sguardi e le menti, ma anche “la placenta del cinema vero, la riserva del talento, dell’immaginazione, della fantasia, della tecnica: di tutto quello che fa il cinema”.
Cecilia Mangini inizia a dirigere, assieme al marito e anche in collaborazione con Pier Paolo Pasolini, lavori documentaristici sulle periferie cittadine e sul controllo sociale delle classi subalterne. Nel 1958 debutta con il cortometraggio a colori Ignoti alla città, ispirato al romanzo Ragazzi di vita con il quale Pier Paolo Pasolini, appena tre anni prima, ha dipinto con tratti lirici ma disincantati la quotidianità degli adolescenti di borgata: un sottoproletariato urbano a cavallo tra espedienti e sogno, calci al pallone e spiccioli rubati, improvvisate lotte di cani e desiderio di scarpe nuove, nel cono d’ombra di un boom economico che stenta a includere tutti. Nonostante il rifiuto della mostra del Cinema di Venezia di inserire la pellicola tra i film in concorso e l’immediata bocciatura da parte della censura, che si risolve parzialmente solo grazie a una movimentata battaglia parlamentare, Ignoti alla città dà avvio alla collaborazione fra la regista e Pasolini, una collaborazione fortuita e spontanea: per trovare la disponibilità dello scrittore friulano, che non conosceva, a Cecilia Mangini è bastato cercare il suo numero di telefono sull’elenco e attendere che alzasse la cornetta.
Uno sguardo sul Mezzogiorno, vicino alle radici perdute dell’infanzia pugliese della regista, è anche Maria e i giorni (1960), che ha per protagonista l’anziana conduttrice di una masseria non lontana dall’abitazione del nonno paterno della regista: un tempo Maria fu la concubina di un signorotto locale che si divideva tra Napoli e quest’angolo di Puglia. Le immagini del documentario restituiscono la quotidianità di un interno familiare contadino: gli spazi, gli oggetti, le abitudini, il rapporto con le nuore e il nipote, ma anche le pratiche religiose, il “colloquio coi santi” e con lo “spirito gaguro” che si diverte a fare impazzire gli animali: “formule antiche”, quasi magiche, di un’anziana ancora indomita nonostante l’età e le maldicenze. “Religiosità e solitudine, ira e superstizione, avarizia, grettezza, rimpianto: non riescono a nascondere la presenza dei suoi giorni operosi. Nata al lavoro, va alla fatica di sempre come la vecchia zappa, condannata a cadere in disuso ma che ancora sa aprire la terra per il bisogno degli uomini”.
Lo sguardo sull’Italia che cambia
Nel volgere degli anni sessanta la documentarista affronta i temi emergenti di una società in rapida trasformazione materiale e immateriale, analizzando la trasformazione del paesaggio e i drammi sociali legati al boom economico. Con Divino Amore (1961) scruta la religiosità popolare, un cattolicesimo sospeso tra antichi riti e luoghi nuovi attorno al santuario della Madonna del Divino Amore, una chiesa settecentesca nell’agro di Roma quasi dimenticata fino ai giorni difficili dei bombardamenti sulla Capitale, che per gli anni a venire ne rilanciarono la devozione.
Nel mediometraggio Essere donne (1964), commissionato per una campagna elettorale del PCI, si occupa della condizione femminile in Italia negli anni del boom economico: dall’immagine delle dive del cinema veicolate dai primi rotocalchi alle donne di tutti i giorni, giovanissime e anziane, casalinghe, operaie e braccianti, nella terra d’origine o nei luoghi di emigrazione. Un’analisi di costume e psicologica, nella quale non possono che affacciarsi, però, anche i temi dell’impegno sindacale e politico, che si traducono, ad esempio, nelle rivendicazioni per salari equi o per asili comunali che abbiano orari compatibili con quelli del lavoro delle madri. Vengono così disattese le aspettative auto-promozionali delle imprese che, tenute dalla regista all’oscuro dalle reali intenzioni del film, le avevano concesso di riprendere la vita di fabbrica. Nonostante i consensi raccolti anche all’estero, con il Premio della giuria al festival documentario di Lipsia, Essere donne non ottiene il riconoscimento ministeriale di qualità e è quindi escluso dalla distribuzione nelle sale cinematografiche.
Nel coloratissimo e brillante Felice Natale (1965), la regista precorre i tempi e in pieno boom economico prende di mira con tagliente sarcasmo la frenesia compulsiva degli acquisti prima delle feste che imbrigliano un mondo piccolo-borghese incantato dal simulacro del denaro. I miti del benessere affiorano, stavolta con la prospettiva di ceti popolari non più agricoli ma altrettanto poveri e per di più snaturati, anche in Tommaso (1967), storia di un ventenne pugliese il cui orizzonte è stretto tra le raccomandazioni per entrare a lavorare al petrolchimico di Brindisi e il desiderio di una motocicletta tutta sua. L’anno precedente, l’industrializzazione imposta ad un Mezzogiorno ancora profondamente agricolo è il tema di Brindisi ’65, che tratteggia la normalizzazione dei ceti bracciantili via via sottratti alle campagne per essere impiegati nella fabbrica moderna, il recente impianto petrolchimico Monteshell nella città di Brindisi. Dalla fiera povertà antica delle campagne lucane, che era stata tratteggiata pochi anni prima da Del Frà ne La passione del grano (1960), la distanza sembra ormai irrecuperabile.
I premi
Oltre al già citato premio al festival documentario di Lipsia per Essere donne, il cinema di Cecilia Mangini riscuote negli anni riconoscimenti in Italia e all’estero: nel 1961 Fata Morgana, di cui è coautrice della sceneggiatura, ottiene il Leone d’oro a Venezia; più avanti conquista il Pardo d’oro al festival del cinema di Locarno con Antonio Gramsci – I giorni del carcere (1977), del quale firma soggetto e sceneggiatura insieme a Lino Del Fra, che ne cura la regia. La pellicola, che vede Riccardo Cucciolla nei panni del protagonista, racconta con rigore storiografico gli anni di prigionia dell’intellettuale comunista nel carcere di Turi, la complessità delle relazioni interpersonali con i compagni di prigionia, con i familiari, con i dirigenti del partito ancora in libertà. Nonostante il tema, i coniugi-registi (che sono comunisti eterodossi, muovendo l’uno da posizioni marxiste antistaliniste e l’altra da un approccio libertario e anarchico) operano in maniera autonoma, senza praticamente alcun rapporto con il PCI. E in effetti, all’uscita, il film non riceve l’atteso riconoscimento del massimo dei voti dal critico cinematografico dell’Unità.
Nel 2009 la figura e l’opera di Cecilia Mangini sono riprese al NodoDoc Festival di Trieste Dal 2012 fa parte del comitato di consulenza e rappresentanza del periodico Diari di Cineclub.
Il lungo silenzio cinematografico è interrotto solo nel 2012 quando, in un contesto di rinnovata vitalità per la documentaristica, insieme all’altra regista molese e sua allieva Mariangela Barbanente Cecilia Mangini torna alla regia con il documentario In viaggio con Cecilia, una disincantata scorrazzata automobilistica nelle contraddizioni (e nelle devastazioni) di una Puglia nella quale i canti delle prefiche hanno lasciato il posto a uno sviluppo che non ha portato progresso, per riprendere la celebre antinomia pasoliniana. La Puglia si fa così pretesto per raccontare un’Italia nella quale all’ingenuità picaresca dei ragazzi di borgata di mezzo secolo prima si è sostituita l’apatia da movida di troppi giovani che dal futuro non si aspettano nulla perché, come dice uno degli intervistati, “non mi sono informato”. “Scusa ma perché? Chi te lo ha impedito?” risponde piccata la stessa regista.
Il 21 settembre 2017 al Museo del Costume di Nuoro viene inaugurata la mostra fotografica Isole, viaggio fotografico a Lipari e Panarea.
Il 28 novembre 2020 l’associazione Museo Nazionale del Cinema le conferisce il premio Maria Adriana Prolo e le dedica un numero speciale di Mondo Niovo, la rivista dell’associazione diretta da Caterina Taricano.
Cecilia Mangini muore a Roma a 93 anni, il 21 gennaio 2021.