Di Arnaldo Colasanti
Il primo paradosso di Pier Paolo Pasolini è la sua città natale: Bologna, 5 marzo 1922. Pochissimo in Pasolini c’è del Domenichino e dei Carracci, di Stefano Benni o Guido Guinizzelli. La Bologna del poeta è piuttosto magica. E’ una città fatta di fantasmi: Pascoli, Roberto Longhi, Dante, nella sua presunta formazione e certo nella scoperta teologica di quell’Empireo in cui scoprì la poesia. Bologna, come città natale, è dunque quasi casuale. Restò a Pier Paolo una città immaginaria. L’infanzia vera fu invece Casarsa – la mitica. La terra dei genitori Carlo Alberto e Susanna; la terra dei primi versi; il sapore e l’umore di quella fantasia che resterà per sempre dentro ai versi, come visioni di piogge, neve e profumo di umidità. Casarsa è l’infanzia e insieme è il retrocedere di quell’infanzia nella nascita. E’ insomma un tempo non davvero mitografico ma paradossale, in contro movimento, così come sarà per sempre Pasolini. O potremmo dire così: la friulana Casarsa è la mèta fissa delle vacanze estive (la sfinita infanzia del poeta) e insieme è la lingua, appunto la nascita sottomessa come una tenue natura a quella sensibilità di bambino col “ciuffo impudente”.
La vita porta dove vuole. Avverrà il trasferimento a Cremona, a fine al ’32 e non oltre il ’35. Ma non sarà altro che la semplice dimora per il vecchione, così lo stesso Pier Paolo si descrisse, “dell’ultima impubertà”. Altri trasferimenti e mille e mille viaggi in treno con i libri lasciati aperti sotto la luce tenue che bagna i falsi divani degli scompartimenti: Scandiano, Reggio Emilia, di nuovo Bologna (il mitico Liceo Galvani e l’Università). Le versioni di latino, i classici, la scoperta di Rimbaud e dello sport (il calcio), infine le letture del maestro, Giuseppe Ungaretti. Siamo negli anni stonati del fascismo. E delle tante finzioni da sostenere – per esempio, il gran da fare di Pier Paolo con gli amici per rassicurali di militaresche conquiste femminili. Ovviamente Pasolini, quello vero, sta tutto nella fantasia del grande sogno. L’unico: la poesia, scritta in una lingua pura e “rosada”, cioè di rugiada, che è propria della lingua contadina del friulano, orale e diffusa come la luce del mattino, nemmeno di tradizione scritta quanto il friulano udinese al di là del Tagliamento. La poesia per il ragazzo non è un mito, tanto meno un rifugio. La bellezza intatta delle Poesie a Casarsa (scritte fra la fine del ’41 e il ’42), dell’Usignolo della Chiesa Cattolica (1946) e del riepilogativo La meglio gioventù (’47) è la bellezza di un verso fresco e potente, timido ma civilissimo in quegli straordinari ritratti giotteschi in primo piano, come per tenere stretta la vita. Bologna vale invece gli studi. Il tentativo di Pasolini di dedicarsi alla pittura (dipinge e fa vedere qualcosa a Francesco Arcangeli) e alla storia dell’arte (chiede la tesi a Longhi): poi i primi segni del Pasolini redattore e, se vogliamo, organizzatore intellettuale (la rivista “Il Setaccio”). E’ un’anima che cresce e che diventa consapevolezza civile. Nell’ultimo numero della rivista (1943) quell’articolo dal titolo Ultimo discorso sugli intellettuali sembra già un J’accuse corsaro ante litteram.
Sono gli ultimi anni della guerra, i più terrificanti. L’orrore di Salò è ovunque. Guido, il fratello di Pier Paolo, diventa partigiano con in tasca la tessera del Partito d’Azione. Con Susanna, Pier Paolo si rifugia in una stanzetta a Versuta, quasi un villaggio. Parte l’idea di una scuola gratuita (durerà fino al ’47), mentre infuria una guerra cieca, infida. Guido viene ucciso il 12 febbraio del ’45: e non per mano dei nemici ma degli alleati, compagni partigiani comunisti italiani e slavi. E’ un inferno subdolo. Non c’è da opporre altro che lo studio e la vita. Entrambe per Pier Paolo hanno il nome di Gianfranco Contini – forse l’unico filologo italiano che può comprendere il valore morale di quel foglietto “Stroligùt”, su cui Pier Paolo vuole rigenerare la propria unità europea, le letterature romanze minori. Inizia il Dopoguerra. Pasolini entra per la via di Gramsci nel mondo del marxismo: aderisce al PCI. E conosce “la notte di un Friuli in amore”, i cosiddetti fatti dei tre ragazzi alla festa di fine estate (1949) di Ramuscello. E’ una storia triste. Non l’omosessualità ma l’orrore italiano. Un paesano baciapile lo denuncia ai carabinieri. I dirigenti del PCI di Udine lo espellono dal partito. Suo padre soffia sullo scandalo: vorrebbe vedere morto il figlio. Non c’è altro che la fuga: di Susanna e del figlio, come in una tragedia antica.
Il 28 gennaio del 1950 Susanna e Pier Paolo arrivano a Roma, ma come figli delle Supplici. La miseria è un morso alla gola. Pier Paolo si iscrive persino al Sindacato Comparse di Cinecittà, arriva alla vendita dei suoi libri sulle bancarelle. Roma è subito la scoperta delle borgate: Primavalle, Quarticciolo, Tiburtino, Pietralata. Una scoperta dolorosa e bellissima: le stimmate di un’esclusione sottoproletaria in cui il poeta trova la propria antica rugiada. E poi la scuola: un lavoretto nella parificata di Ciampino. Ogni mattina un viaggio: ogni giorno uno smarrimento in mezzo al paesaggio romano che è fatto di acquedotti antiche e marane, ragazzi fangosi ma liberi, le pecore che si disperdono fra le case vicino ai nuovi quartieri bianchissimi. Il 1952 è l’anno dell’Antologia della poesia dialettale, che è un po’ una sorta di palinsesto del Canzoniere italiano del ’55. Letture e primi lavori editoriali; e i grandi amici: Penna, Caproni, Bertolucci, Gadda. L’uscita di Ragazzi di vita (1955) è uno schiaffo al conformismo nazionale. I comunisti capiscono poco e ruminano livore. Cecchi fa lo snob e i cattolici chiamano i carabinieri, con una denuncia di pornografia. Solo Contini capisce tutto – come sempre. La paradossale ricezione del romanzo spiega benissimo l’humus in cui nasce “Officina” (1955), con Pasolini, Leonetti e Roversi. E’ forse una delle riviste più intelligenti del 900: la più inebriante per originalità. Ma l’annus mirabilis resta il 1957, l’anno de Le ceneri di Gramsci, uno dei capolavori della poesia italiana. Lo dicono in molti (soprattutto Calvino e Sereni): con questo libro cambia l’Italia; alla poesia vengono concessi in egual misura la bellezza della profondità e il grido dell’indignazione. Accade il miracolo: il vuoto di razionalità, tipico del primo Novecento, viene superato da una poesia che diventa futura quanto più è capace di restare antica, cioè civile, razionale, umana, comunicativa. L’impresa è l’apice di tutto il lavoro di Pasolini: incredibilmente coincide con la morte del padre (‘58) e la crisi del romanzo, Una vita violenta del 1959.
Questo romanzo è un altro grande paradosso dello scrittore. Pier Paolo lo sentiva come il suo punto più alto. Caproni, Calvino e altri lo dichiararono un superamento di Ragazzi di vita. Eppure anche oggi, a rileggerlo, ci si accorge che la forza di Una vita violenta sta proprio nel mettere in crisi Ragazzi di vita. Obbligato dal fortissimo Super Io dello stile a tentare un’austerità che disinneschi qualsiasi lirismo soffuso lungo la tenerezza poetica dei Ragazzi di vita, Pier Paolo sperimenta un timbro di ribellione e di sottile interdizione, che pone la potenza del romanzo nella più alta dichiarazione della crisi dell’esordio narrativo. Assistiamo ad un intreccio di letterarietà e mimetica crudezza: ad un corpo a corpo con se stessi. E’ in fondo Una vita violenta ad illuminare meglio il timbro saggistico e insieme filologico dei saggi di Passione e Ideologia (1960) e poi della raccolta di versi La religione del mio tempo (1961). Ma soprattutto è la crisi del romanzo, la sua autocombustione etica, a motivare il passaggio al cinema: la scrittura del soggetto di Accattone. Il film esce nel ’61, portando con sé la nudità del mondo povero visto nei primi viaggi in India e altrove e così del mondo poverissimo moralmente dei critici cinematografici italiani. Un anno dopo esce Il sogno di una cosa (un romanzo di ambiente friulano) e in agosto Mamma Roma (accolto con maggior interesse di Accattone); infine l’episodio La ricotta, un vero e proprio quadro vivente – umoristico, sarcastico – di spiritualità cristiana. Ovviamente, il risultato stimola il disonore della vita nazionale: si parla solo di sequestri, il processo per vilipendio, una condanna. Pier Paolo scrive e lavora. Si sta preparando al Vangelo secondo Matteo (1964) e intanto realizza un gioiellino di ricerca antropologica Comizi d’amore (1963), approntando il progetto de La Divina Mimesis. Esce Poesia in forma di rosa (1965) con tutta la sua torbida amarezza. Si snoda il solito teatrino dei marxisti attorno alla liceità o meno di un film sul Cristo, nel momento stesso in cui i cattolici bofonchiano pregiudizi. Ma Pasolini resta una macchina inesauribile: Uccellacci e uccellini (1966) e Porcile (1968), il Pilade, Teorema (romanzo nel 1968), Edipo re, Medea, il cortometraggio La terra vista dalla luna, quel diamante di pura bellezza Che cosa sono le nuvole?. Teatro, cinema, saggistica. Poi viaggi e articoli. Attacchi da tutte le parti. Lo scandalo più noto di tutti: la poesia Il P.C.I ai giovani! Col corollario di un destino: chi è Pasolini? Di destra, di sinistra? un miserabile omossessuale ossessivo e decadente? Il commento di un regista sovietico alla mostra di Venezia, dove è presentato Porcile, segno delle nefandezze del mondo occidentale, è patetico, è terribile, è semplicemente esemplificativo.
Un lavoro dunque indefesso ma non cieco. In definitiva, quello che più ci colpisce di Pasolini è proprio la razionalità del suo progetto d’arte. Con i suoi capitoli: la poesia, il romanzo, il cinema realista, la spiritualità dei poveri; infine le radici dell’allegoria morale, cioè Teorema, Porcile e Medea e poi la farsa, il ridere vero e falso della letteratura contro il falso/finto del consumismo. Appunto Decameròn (1970), I racconti di Canterbury (1972), Il fiore della mille e una notte (1974). Arriva anche l’ultima raccolta poetica Trasumanar e organizzar (1971). Annus terribilis: l’anno del suicidio di Mishima e di Paul Celan: l’anno della Satura montaliana. Qualcuno pensa che sia l’anno della morte della letteratura. Forse lo crede anche Pier Paolo, ma a suo modo: con la morte della letteratura si lascia lo spazio ad una “forma di vita” in cui la vita stessa e il mondo restano inconsumabili, ambigui. Come dire: Trasumanar e organizzar è l’estremo fiore di dignità e di civiltà per un’umanità giunta al disincanto. La lingua di Paolini è sempre più perentoria e scarna. Al tempo stesso, è assoluta: Empirismo eretico, Scritti corsari; il teatro di Calderòn e di Affabulazione, il postumo Lettere luterane, il perturbante compimento cinematografico di Salò. Il titolo alla sua ultima intervista, concessa a Furio Colombo, lo dà lui stesso: “Siamo tutti in pericolo”. Sembra un fiore apicale. Nella notte fra il 1 e il 2 novembre del 1975, all’Idroscalo di Ostia, un ragazzino, Pino Pelosi, lo uccide, calpestandolo con la macchina. E’ la fine del più grande poeta italiano del Novecento. Poi, nel ’92, quando la cosiddetta Prima Repubblica vomita se stessa, appare una luna rossa, uno splendore di struggente bellezza: Petrolio. Niente è morto. Nulla è stato vano.