Il 26 aprile 1986 il quarto reattore della centrale nucleare di Chernobyl esplode rilasciando grandi quantità di materiale radioattivo nell’atmosfera.
Alla base del disastro parrebbero esservi errori di procedura nel corso di un test di sicurezza sul reattore nucleare RBMK numero 4 della centrale, condotto allo scopo di simulare un black out elettrico al fine di elaborare una soluzione per mantenere freddo tale reattore per il tempo necessario a ristabilire l’alimentazione d’emergenza alle pompe d’acqua. Non era la prima volta che tale test veniva effettuato: infatti, dal 1982 se ne erano tenuti altri tre. Durante il test che provocò l’incidente, posticipato di 10 ore rispetto alla pianificazione iniziale, il reattore lavorò in condizioni instabili; durante questo lasso di tempo, la potenza del reattore venne progressivamente abbassata. Nessuno si accorse di tale instabilità e, quando in piena notte l’allarme rese necessario l’immediato spegnimento del reattore, si innescò una reazione a catena che ne provocò l’esplosione.
Una nuvola di materiale radioattivo fuoriuscì dal reattore e ricadde su vaste aree intorno alla centrale, contaminandole pesantemente. Nonostante il rapido intervento dei vigili del fuoco delle vicine stazioni di Pripjat’ e Černobyl’, per molti giorni fu impossibile bloccare l’emissione radioattiva. I dirigenti sovietici inviati sul posto cercarono di sigillare il reattore esploso con misure d’emergenza improvvisate ma, di fronte alle dimensioni del disastro, furono costretti a organizzare l’evacuazione e il reinsediamento in altre zone di circa 336 000 persone. Non fu neppure possibile evitare la divulgazione della notizia nel mondo e le pesanti conseguenze per la credibilità e il prestigio tecnico-scientifico dell’Unione Sovietica: le nubi radioattive raggiunsero in pochi giorni anche l’Europa orientale, la Finlandia e la Scandinavia, toccando, con livelli di radioattività inferiori, anche l’Italia, la Francia, la Germania, la Svizzera, l’Austria e i Balcani, fino a porzioni della costa orientale del Nord America, provocando un allarme generale e grandi polemiche contro i dirigenti sovietici.
Un rapporto del Chernobyl Forum redatto da agenzie dell’ONU (OMS, UNSCEAR, IAEA e altre) conta 65 morti accertati e più di 4 000 casi di tumore della tiroide fra quelli che avevano fra 0 e 18 anni al tempo del disastro, larga parte dei quali attribuibili alle radiazioni. La maggior parte dei casi è stata trattata con prognosi favorevoli. Al 2002 si calcolavano 15 morti.
I dati ufficiali sono contestati da associazioni internazionali, fra le quali Greenpeace, che presenta una stima fino a 6000000 di decessi su scala mondiale nel corso di 70 anni, contando i tipi di tumori riconducibili al disastro secondo il modello specifico adottato nell’analisi. Il gruppo dei Verdi del parlamento europeo, pur concordando con il rapporto ufficiale ONU sul numero dei morti accertati, lo contesta sulle morti presunte, che stima in 30 000-60 000
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