Il 13 giugno 1981, a Vermicino, vicino Frascati, il piccolo Alfredino Rampi di sei anni, caduto in un pozzo artesiano, perde la vita dopo quasi tre giorni di agonia e dopo tre giorni di disperati tentativi di salvataggio. La vicenda ebbe grande risalto sulla stampa e nell’opinione pubblica italiana, e venne seguita da una diretta televisiva della Rai durante le ultime 18 ore del caso.
Le operazioni di soccorso si rivelarono subito estremamente difficili, in quanto la voragine presentava un’imboccatura larga 28 cm, una profondità complessiva di 80 metri e pareti irregolari e frastagliate, piene di sporgenze e rientranze. Giudicando impossibile calarvi dentro una persona, il primo tentativo di salvataggio consistette nel calare nell’imboccatura una tavoletta legata a corde, allo scopo di consentire al bimbo di aggrapparvisi per sollevarlo; tale scelta si rivelò un grave errore, in quanto la tavoletta si incastrò nel pozzo a 24 metri, ben al di sopra del bambino e non fu più possibile rimuoverla, poiché la corda che teneva la tavoletta si spezzò e di conseguenza il condotto ne risultò quasi completamente ostruito. Attorno all’una di notte alcuni tecnici della Rai, allertati allo scopo, calarono nel budello roccioso un’elettrosonda a filo, per consentire ai soccorritori in superficie di comunicare col bambino il quale, almeno per il momento, rispondeva lucidamente.
Si pensò quindi di scavare un tunnel parallelo al pozzo, da cui aprire un cunicolo orizzontale lungo 2 metri, che consentisse di penetrare nella cavità poco sotto il punto in cui si supponeva si trovasse il bambino. Per far ciò occorreva una sonda di perforazione, che fu reperita alle ore 6:00.
Alle ore 4:00 dell’11 giugno giunse sul posto un gruppo di giovani speleologi del Soccorso alpino, che si offrirono come volontari per calarsi nel sottosuolo. Il caposquadra, il ventiduenne Tullio Bernabei,di corporatura sufficientemente magra, fu il primo a scendere nel pozzo e, calato a testa in giù, tentò di rimuovere la tavoletta che era rimasta incastrata. Tuttavia i restringimenti del pozzo gli consentirono di arrivare solo a un paio di metri da questa. Dopo di lui si calò un secondo speleologo, Maurizio Monteleone, ma anch’egli arrivò a pochissima distanza dalla tavoletta, non riuscendo a prenderla. Nel frattempo i Vigili del fuoco avevano incominciato a pompare ossigeno nel pozzo, allo scopo di evitare l’asfissia del bambino.
Il comandante dei Vigili del fuoco di Roma, Elveno Pastorelli, giunto nel frattempo sul posto, ordinò allora di sospendere i tentativi degli speleologi e concentrare gli sforzi nella perforazione del “pozzo parallelo”. Una geologa lì presente, Laura Bortolani, ipotizzando i substrati di terreno molto duri che si sarebbero incontrati in profondità, fece notare a Pastorelli che sarebbe occorso un lungo tempo per la perforazione, e pertanto propose di proseguire anche con gli altri tentativi. Secondo Tullio Bernabei tale suggerimento sarebbe stato respinto da Pastorelli, il quale avrebbe ribadito il divieto di ulteriori discese, ordinando pertanto agli speleologi di sgomberare.
Alle ore 8:30 la sonda cominciò a scavare e il terreno si rivelò friabile riuscendo a scavare 2 metri in due ore; verso le 10:30 tuttavia, come previsto dalla Bortolani, venne intercettato uno strato di roccia granitica difficile da scalfire. Nel frattempo il bambino si lamentava per il forte rumore e alternava momenti di veglia a colpi di sonno e chiedendo da bere.
Alle 10:30, per non interferire con le comunicazioni via etere dei soccorritori, la Rai e le stazioni radiofoniche laziali disattivarono i loro ponti radio in onde medie.
Verso le 13:00, su specifica richiesta dei soccorritori, arrivò sul posto un’altra perforatrice, più grande e potente della prima. All’incirca alla stessa ora andavano in onda le edizioni di mezza giornata del TG1 e del TG2: fu a questo punto che la Rai incominciò a occuparsi con vivo interesse del fatto (già affrontato con alcuni servizi trasmessi nei notiziari della notte precedente). Tra i primi a giungere sul posto vi fu l’inviato del TG2 Pierluigi Pini, il quale aveva visto per caso un appello su un’emittente televisiva privata laziale per il reperimento urgente di mezzi d’escavazione, decidendo pertanto di recarsi a Vermicino con una troupe.
Il “tam-tam” mediatico alimentò la curiosità del pubblico: attorno al pozzo finì quindi per raccogliersi una folla di circa 10.000 persone e incominciarono ad arrivare anche venditori ambulanti di cibo e bevande. Probabilmente anche questo colossale assembramento (la zona non era transennata e chiunque poteva arrivare praticamente fino all’imboccatura della cavità) ebbe un ruolo rilevante nel rallentare la macchina dei soccorsi.
Intorno alle 16:00 entrò in azione una seconda perforatrice, più performante, dopo che la prima era riuscita a scavare un pozzo di 20 metri di profondità e 50 cm di diametro. I tecnici operatori di questa nuova macchina, a causa del sottosuolo duro e compatto, ipotizzarono non meno di 8-12 ore di lavoro per arrivare alla profondità richiesta.
Alle 18:22 il pozzo parallelo aveva raggiunto una profondità di 21 metri e lo scavo procedeva con difficoltà. Interpellato allo scopo, Elvezio Fava, primario di rianimazione all’ospedale San Giovanni, si dedicò a controllare le condizioni di salute del bambino, che era affetto da una cardiopatia congenita in attesa di essere operata a settembre.
Alle ore 20:00 entrò in funzione un terzo impianto di perforazione, più piccolo e agile; al contempo fu calata nel pozzo una flebo di acqua e zucchero, per tentare di dissetare il bambino. Ritenendo non più necessario lasciare libere le frequenze, le stazioni radio locali ripresero le trasmissioni in onde medie.
Alle 21:30 si rese necessaria una pausa nella perforazione; alle 23:00 fu autorizzato a scendere nel pozzo un volontario, il manovale siciliano cinquantaduenne Isidoro Mirabella, dal fisico minuto e subito ribattezzato “l’Uomo Ragno”. Egli però, a causa di ostacoli tecnici, non riuscì ad avvicinarsi a sufficienza al bambino, anche se poté parlargli.
Alle 7:30 del 12 giugno la perforatrice era scesa soltanto a 25 metri di profondità. Un’ora e mezzo dopo incontrò un terreno più morbido, che le consentì di accelerare la discesa; nel frattempo i soccorritori continuavano a parlare col bambino (che aveva cominciato a piangere dicendo di essere stanco) tramite l’elettro-sonda.
Alle 10:10 lo scavo parallelo era arrivato a una profondità di 30 metri e 5 centimetri e un ingegnere dei vigili del fuoco rivide al ribasso la stima della profondità cui si trovava il bambino: 32,5 m invece di 36. Si decise pertanto di accelerare i lavori e di incominciare immediatamente a scavare il raccordo orizzontale fra i due pozzi, prevedendo di sbucare un paio di metri sopra il bambino. Alle 11:00 giunse sul posto una scavatrice a pressione per scavare il tunnel di connessione, che tuttavia si bloccò poco dopo l’accensione. Tre vigili del fuoco incominciarono quindi a scavare a mano. Nel frattempo Alfredo aveva smesso di rispondere ai soccorritori, e i medici presenti sul posto, che ascoltavano il suo respiro, riferirono che stava peggiorando: 48 espirazioni al minuto.
Alle 16:30 giunse sul posto il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che si fece porgere il microfono per poter parlare con il bambino; l’arrivo del presidente fu altresì determinante nel convincere le redazioni dei telegiornali a non “staccare” la diretta.
Alle 19:00 il cunicolo orizzontale fu completato e il pozzo del bambino fu posto in comunicazione con quello parallelo, a 34 metri di profondità. Tuttavia, si dovette prendere atto del fatto che il bambino non era nelle vicinanze del foro appena aperto in quanto, probabilmente anche a causa delle vibrazioni causate dalla perforazione, era scivolato molto più in basso a una profondità imprecisata. Pastorelli richiamò gli speleologi e chiese a Bernabei di calarsi nel secondo pozzo: il soccorritore si affacciò quindi dal cunicolo orizzontale di raccordo e calò una torcia legata a una cimetta per calcolare la posizione del bambino, che risultò a circa una trentina di metri. In seguito si accertò che il bambino si trovava a circa 60 metri dalla superficie.
L’unica possibilità rimasta era la discesa di qualche volontario lungo il pozzo. Il primo a prestarsi fu uno speleologo, Claudio Aprile, che tentò di introdursi nel pozzo artesiano dal cunicolo orizzontale; tuttavia, l’apertura di comunicazione si rivelò troppo stretta per permettere la calata e il giovane speleologo dovette desistere.
Un altro volontario, il tipografo d’origine sarda Angelo Licheri, piccolo di statura e molto magro, chiese e ottenne allora di farsi calare nel pozzo originario per tutti e 60 i metri di profondità.[13][14] Licheri, cominciata la discesa poco dopo la mezzanotte fra il 12 ed il 13 giugno, riuscì ad avvicinarsi ad Alfredino, tentò di allacciargli l’imbracatura per tirarlo fuori dal pozzo, ma per ben tre volte l’imbracatura si aprì; tentò allora di prenderlo per le braccia, ma il bambino scivolò ancora più in profondità. Per di più, nel tentativo, involontariamente gli spezzò anche il polso sinistro. In tutto, Licheri rimase a testa in giù 45 minuti, contro i 25 considerati soglia massima di sicurezza in quella posizione, ma dovette anch’egli tornare in superficie senza il bambino.
Dopo Licheri cominciarono a offrirsi vari altri volontari, fra cui nani, esperti di pozzi e persino un contorsionista circense soprannominato “Denis Rock”. Intorno alle ore 3:00 venne imbracato per un altro tentativo Pietro Molino, un ragazzo di 16 anni originario di Napoli, anch’egli di corporatura esile e giunto sul posto accompagnato da un cugino; quando si scoprì che era minorenne e privo del diretto consenso dei genitori per tentare di salvare il bambino, il ragazzo venne fermato dal magistrato presente sul posto.
Verso le 5:00 del mattino ebbe inizio il tentativo di un altro speleologo, Donato Caruso. Anch’egli raggiunse il bambino e provò a imbracarlo, ma le fettucce da contenzione psichiatrica che aveva usato e che avrebbero dovuto assicurare una sorta di effetto cappio, scivolarono via al primo strattone. Caruso si fece ritirare su fino al cunicolo di collegamento, dove si fermò per riposare e poi ritentare. Effettuò altri tentativi con delle manette, metodo molto più rischioso anche per il soccorritore perché queste erano legate alla stessa sua corda di sicurezza. Alla fine, anche Caruso tornò in superficie senza esser riuscito nell’intento, riportando inoltre la notizia della probabile morte del bambino.
Dopo che la signora Franca chiamò per molte volte invano il figlio, verso le 9:00 del 13 giugno venne calato nel pozzo uno stetoscopio, al fine di percepire il battito cardiaco del bambino. Non registrando nulla, verso le ore 16:00 venne calata nella buca una piccola telecamera fornita da alcuni tecnici della Rai, che a circa 55 metri individuò la sagoma immobile di Alfredino, che non si muoveva più né tantomeno respirava. Fatta la dichiarazione di morte presunta, per assicurare la conservazione del corpo, il magistrato competente ordinò che fosse immesso nel pozzo del gas refrigerante (azoto liquido a −30 °C). Il cadavere fu poi recuperato da tre squadre di minatori della miniera di Gavorrano l’11 luglio seguente, 28 giorni dopo la morte del bambino.
I funerali si svolsero il 17 luglio 1981 nella Basilica di San Lorenzo fuori le mura; la salma venne trasportata da quegli stessi volontari che tentarono di salvarlo, fra cui Angelo Licheri e Donato Caruso. Infine fu sepolto presso il Cimitero del Verano di Roma.
La storia di Alfredino Rampi, caduto in un pozzo a Vermicino.
La mancanza di organizzazione nei soccorsi di Alfredino fece comprendere l’esigenza di una nuova struttura organizzativa, in grado di gestire situazioni di emergenza. Negli anni a seguire sarebbe nata la Protezione Civile.
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