150 anni fa nasceva in Alsazia il celebre medico missionario franco-tedesco Albert Schweitzer (1875-1965), premio Nobel per la pace 1952. In occasione della ricorrenza, Rai Teche pubblica su RaiPlay il bellissimo reportage d’archivio “Albert Schweitzer – Le Grand Docteur“, firmato dal grande Sergio Zavoli e trasmesso il 25 luglio 1965 all’interno della rubrica “Incontri” sul secondo canale.
La sensibilità unica di Zavoli nel raccontare attraverso la voce e le immagini si esprime qui al meglio offrendo un ritratto della figura eccezionale di Schweitzer, raggiunto dalla troupe Rai nel luogo al quale dedicò il suo inesauribile impegno umanitario: l’ospedale di Lambaréné in Africa, nell’attuale Gabon.
Le suggestive riprese curate dagli operatori Franco Lazzaretti e Paolo Arisi Rota documentano l’attività della struttura sanitaria, sorta per la prima volta nel 1913 e cresciuta soprattutto a partire dagli anni ’20 del ‘900 ai margini dell’immensa foresta equatoriale. Il viaggio dentro questa straordinaria esperienza di cura e di filantropia, divenuta ben presto un riferimento a livello mondiale, è profondamente sentito ma non ne nasconde i limiti. Nelle interviste all’ormai novantenne Schweitzer, che sarebbe morto di lì a poco, e al giovane medico svizzero Walter Munz, al quale sarebbe passato il testimone della gestione di Lambaréné, Zavoli ricorda infatti alcune critiche rivolte al presunto paternalismo della loro opera, e in particolare ad un approccio ingenuamente “misticheggiante” e in apparenza restio a modernizzarsi.
Cionondimeno la personalità di Schweitzer, “uomo universale” capace di sacrificare i propri talenti di musicista e teologo per spendere un’intera esistenza al servizio dei malati africani, giganteggia con il suo insegnamento morale, intessuto di valori umanistici e filosofici quali la solidarietà, la giustizia, la pace e, soprattutto, la centralità del rispetto per ogni forma di vita. L’intensa narrazione giornalistica di Zavoli, aiutata dalle musiche del maestro Piero Piccioni, si rivela il veicolo ideale per restituire la visione spirituale di colui che per i suoi pazienti indigeni fu “Oganga”, lo “Stregone Bianco”, e per tanti occidentali invece un santo laico la cui vita «è stata abbastanza lunga per toccare la tastiera di un organo e le piaghe di un lebbroso».