Il mondo ha ancora bisogno dei cantastorie? Attorno a questa domanda e prendendo spunto dalla notizia della convocazione a Bologna di un congresso nazionale di cantastorie del 1954, Pia Moretti esplora la variegata e suggestiva realtà dei cantastorie, moderni giullari che resistono nelle piazze congestionate dal traffico per vendere storie gaie o commoventi e con esse “allegria, divertimento, gioia e passatempo”, come dichiara uno degli intervenuti. Le vicende della loro esistenze, narrate dai diretti interessati in prima persona partendo dal movente che li ha spinti a intraprendere questa singolare e anacronistica attività, rivelano molte somiglianze. Sono in genere storie di gente rozza e smaliziata, con una certa dose di spirito avventuroso, un pizzico di cortigianeria, un sovrano disprezzo della sottomissione, ebbri di libertà, di aria e di sole, romantici e salaci nella stessa misura. Se la vita trovadorica affonda le proprie radici nelle origini della poesia in volgare, nella Scuola Siciliana fiorita attorno a Federico II, che a sua volta risentiva dell’influsso provenzale, essa mantiene, tuttavia, ancora una vitalità operante nelle regioni in cui ebbe maggior fulgore: la Sicilia, la Toscana, il Piemonte e l’Emilia Romagna. Si succedono così, tra le tante, le testimonianze di Luigi Maniero, veneto, che racconta cantando come ha costituito con la propria famiglia, formata da lui, dalla moglie e dai tredici figli, un’orchestra con la quale gira l’Italia, di Alfredo Luciani, poeta dialettale abruzzese dotato del fervore e dell’ottimismo del poeta primitivo, che si autodefinisce “giullare cristiano”, di Marino Piazza, figura storica dei menestrelli, rimatore d’occasione, nel quale si personifica la tradizione improvvisativa, la capacità di trarre spunti dalle vicende quotidiane, “guardando la vita col sorriso in bocca e col cappello in testa perché gli tiene a posto il cervello”.
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