Il documentario “Le voci di Napoli” realizzato nel 1958 da Sergio Zavoli, presenta uno spaccato della società napoletana di quegli anni, tenendo conto delle difficoltà “Di cogliere una verità napoletana per le differenti misure che di Napoli danno la sua cronaca e la sua letteratura”. Il racconto radiofonico si sviluppa attraverso le testimonianze di quattro autorevoli scrittori partenopei: Michele Prisco, Mario Stefanile, Luigi Compagnone e Domenico Rea che al microfono della radio analizzano le diverse anime della città, la sua storia, la sua cultura e le sue contraddizioni. I luoghi comuni e i pregiudizi legati soprattutto allo stile di vita e al carattere stesso dei napoletani, “Considerati così diversi dagli altri esseri umani da costituire una categoria a parte da studiare, da mettere in mostra”. La prima intervista di Zavoli è a Michele Prisco che evidenzia come Napoli è in un certo senso vittima di un equivoco, eterna cavia del pittoresco, del simpatico del Simm’e Napule paisà. Lo scrittore sottolinea che anche la letteratura e il cinema a volte, hanno contribuito a presentare un’immagine stereotipata dei napoletani: macchiette piacevoli, esuberanti ma false con un certo gusto della teatralità. Lo scrittore a proposito della presunta ospitalità dei napoletani evidenzia una contraddizione di fondo: Napoli, apparentemente aperta e ospitale, è in realtà una città difficile da penetrare e capire. “ Napoli non ha mai abdicato al suo rango di capitale del Mezzogiorno(…) ha un po’ l’orgoglio del vecchio gentiluomo che magari si abbassa sino a batterti la mano sulla spalla ma non tollererà mai che si mettano in discussione i suoi quarti di nobiltà (…) per qualsiasi disperato popolano, o artigiano di Monte Calvario o Forcella, un ricco proprietario di Portici o un barone lucano, sarà sempre Nu cafone e fora”. Il poeta Mario Stefanile, intervistato da Zavoli, demolisce un altro cliché su Napoli: la presunta socialità napoletana. Afferma che la figura simbolica dell’ Homo Neapolitanus sfugge al banco di prova della collettività:”Il napoletano è un solitario soprattutto quando lavora perché ha una personalità da far prevalere (…) sfugge in qualche modo al pericolo di un obbligo sociale, fatto di schemi obbligati e previsti (…) è solitario perché in fondo è un timido. Giocano in lui antichi complessi di inferiorità economica e anche sociale, la sua è una civiltà troppo vecchia e troppo meditativa per farsi improvvisamente ardita e fattiva”. Secondo Stefanile per andare al di là del colore locale e penetrare nella sostanza più intima della città la chiave di volta è la letteratura:” Una letteratura fatta di voci isolate, magari contrastanti, ma viva e non conformista (…) che sfugge alla retorica nel profondo rapporto tra verità concreta e verità poetica”. La testimonianza di Luigi Compagnone mette in luce altri luoghi comuni sul temperamento dei napoletani nel quale, secondo un’opinione diffusa, convivono l’elemento pittoresco e quello grottesco. Il giornalista sottolinea che il napoletano si sente in dovere di fare il pittoresco quando si trova fuori Napoli: “ Per il semplice fatto che il pittoresco è la sua estrema salvezza che è l’ultima maniera di piacere (…) lo vogliono pittoresco e lui si adatta a questa commedia per salvaguardare naturalmente i propri interessi”. Altra convinzione sbagliata è che il dolore e la pietà rappresentano la più costante moralità di Napoli nella quale si inserisce spesso l’elemento grottesco:” Forse per un’antica incapacità al senso della misura. Dove il napoletano per eccesso di fantasia non arriva a rappresentarsi la ragione vi sostituisce una deformazione della ragione. Cioè in altre parole vi sostituisce il grottesco. La vera moralità di Napoli che non accetta né il buono, né il cattivo che di essa si dice ma si riconosce solamente nella poetica fragilità e incostanza del suo proprio giudizio”. L’ultima intervista di Zavoli è allo scrittore più rappresentativo della continuità culturale, morale e storica di Napoli: Domenico Rea. Lo scrittore si sofferma sui motivi storici e sociali che hanno determinato i numerosi pregiudizi nei confronti dei napoletani che feriscono maggiormente la loro sensibilità: “Anche il turista, il visitatore mediocre, viene a Napoli con un’idea falsa di questa città (…) crede di trovarsi nella terra del sole, dei canti e dei suoni, degli scansafatiche, dei ruffiani (…) vi scende persuaso di diventare egli stesso un personaggio del teatrino napoletano e si trova dinanzi a ad una rugosa diversa realtà e allora o denigra o esalta”. Rea chiude l’intervista menzionando un suo vecchio saggio nel quale spiegava che per trovare la Napoli autentica bisogna cercare tra le parole dei grandi scrittori come Boccaccio, Meyer e Stendhal “ Che molte volte con poche parole buttarono all’aria pregiudizi poderosi come casseforti”.
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