Intervista allo scrittore Tahar Ben Jelloun, al centro italo-arabo, su “Il libro del buio”, che racconta l’esperienza di carcere durissimo di detenuti politici a Tazmamart (Marocco).
“Evacuo nella scrittura le fantasie e la follia. Metto nelle parole tutto quello che posso e ritengo così di salvarmi la pelle. Ci tengo a questa chiarezza. Nascondo la faccia e vado avanti, come una statua cieca, guidata dall’alto. Di volta in volta tutto ciò mi diverte oppure mi angoscia. Manca alla poesia nella vita quotidiana. Manco di follia. Conservo gli atteggiamenti di un piccolo professore di filosofia senza eccessi. Proprio quello che ci vuole per passare inosservato. Qualche volta mi prende la voglia di apparire, di fare dello spettacolo. Mi lascio tentare. Mi lascio andare. Per vanità. Per debolezza.”
Così si descrive Tahar Ben Jelloun nel libro autobiografico del 1983 Lo scrivano. E così può apparire ancora oggi in pubblico e nelle interviste, in bilico tra la riservatezza dell’uomo, la coscienza e il piacere di essere uno scrittore di successo, la voglia di condividere la passione per i temi al centro della sua scrittura. Una scrittura che in alcuni casi diventa fonte di sofferenza, come è accaduto per “Il libro del buio” (ma il titolo originale è più complesso e denso: “Questa abbagliante assenza di luce”), che trasforma in romanzo l’esperienza vissuta da uno dei pochissimi superstiti di diciotto anni di carcere durissimo a Tazmamart, in Marocco.
Intervista di Luciano Minerva