“La musica, sola favella comune a tutte nazioni, unica che trasmetta esplicito un presentimento d’umanità, è chiamata certo a più alti destini che non sian quelli di trastullar l’ore d’ozio a un piccol numero di scioperati; questa musica, che oggi è sì vilmente scaduta, s’è rivelata onnipotente sugli individui e sulle moltitudini, ogni qual volta gli uomini l’hanno adottata ispiratrice di forti fatti, crogiolo dei santi pensieri; ogni qualvolta gli eletti a trattarla ricercarono in essa l’espressione la più pura, la più generale, la più simpatica d’una fede sociale”. Così si esprimeva Giuseppe Mazzini nel suo saggio “Filosofia della musica” del 1836 e Giovanni Prati nel 1849, nella dedica della sua “Ode in morte di Carlo Alberto” ad Alessandro Manzoni, scriveva: “Quando passano le grandezze del mondo rimane dopo di loro il giudizio dello storico e il canto del poeta”. Partendo da queste premesse, Giorgio Nataletti tratta la questione di quale sia stato il contributo portato dalla musica popolare, in un’accezione più ampia della prospettiva strettamente etnomusicologia, al processo di unificazione dell’Italia. Interviene il giurista e scrittore siciliano Giuseppe Guido Lo Schiavo che si sofferma sul carattere del canto come emblema dell’ aspirazione di tutti i popoli delle varie regioni italiane ad essere sotto un’unica bandiera, con un’unica lingua e un unico programma costruttivo per l’esistenza di una grande nazione mentre il professor Paolo Toschi, filologo e studioso delle tradizioni popolari, dimostra come il canto risorgimentale si ricolleghi al genere del canto di guerra, nato per alleggerire i disagi, le sofferenze, i pericoli che la guerra comporta. Gli apporti dei due studiosi sono inframmezzati da molti esempi musicali, che vanno dai canti “Eran li venti settembre” e “La bandiera dei tre colori” alla “Bella gigogin”.
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