Nel programma radiofonico “Ciak” in onda il 30/08/1965, ripreso da “Special Hollywood Party”, il giornalista Lello Bersani intervista Jean Luc Godard al Festival del Cinema di Venezia del 1965, in occasione della presentazione del film “Pierrot Le Fou” (Il bandito delle ore undici). Il regista francese parla del film, del suo originale stile cinematografico, che si manifesta con un linguaggio innovativo, difficile da recepire dallo spettatore medio dell’epoca, abituato ad un linguaggio filmico più tradizionale.
Jean Luc Godard (Parigi, 3 dicembre 1930) è un regista, sceneggiatore, montatore e critico cinematografico francese. È uno degli esponenti più importanti della Nouvelle Vague, nonché uno dei registi più significativi del cinema francese e internazionale. La sua carriera è contraddistinta da una grande prolificità e soprattutto dalle grandi innovazioni linguistiche apportate al mezzo cinematografico. Leone d’oro alla carriera nel 1982, ha inoltre ricevuto nel 2011 l’Oscar onorario. Nei primi anni cinquanta si distingue per le sue radicali critiche cinematografiche su riviste come Arts e Cahiers du cinéma. Risale al 1950 il suo primo articolo sulla “Gazette du Cinéma” dal titolo “Joseph Mankiewicz” e nel 1952 giunge ai “Cahiers du cinéma” con lo pseudonimo di Hans Lucas dove pubblica tre articoli: una breve recensione su Rudolph Maté, una più impegnata recensione su L’altro uomo di Alfred Hitchcock e un saggio dal titolo “Difesa e illustrazione del découpage classico” che dimostra la sua visione totalizzante delle arti come la letteratura, il cinema e la pittura. Il “primo periodo” dell’attività cinematografica va dal 1960 al 1967 e viene caratterizzato da una grande vena creativa che porta Godard a realizzare ben ventidue film, tra cortometraggi e lungometraggi, con un attivismo senza limiti che culminerà nell’esperienza del “Sessantotto” vissuta dal regista in prima persona. Nel corso di questi anni, Godard rivolge la propria attenzione ai contenuti erotici dell’immagine contemporanea: manifesti di attori, pubblicità, fumetti, riviste patinate. In quest’ottica nascono film come “Agente Lemmy Caution, missione Alphaville”,” Il bandito delle ore undici” e “Due o tre cose che so di lei”. Di questo periodo è giusto citare un lungometraggio che da molti critici viene definito come una delle massime espressioni della Nouvelle Vague, e cioè “Bande à part” (1964), Il film, ambientato in una Parigi fredda e autunnale, racconta la storia di due amici, interpretati da Sami Frey e Claude Brasseur, che incontrano casualmente una giovane ragazza, bella e ingenua, interpretata da Anna Karina, che influenzerà nel breve e lungo termine le loro esistenze. La splendida sequenza girata nel Louvre, dove corrono come forsennati lungo gli immensi spazi del museo verrà ripresa molti anni dopo da Bernardo Bertolucci nel suo film “The Dreamers”, dove i protagonisti Eva Green, Louis Garrel e Michael Pitt ripetono la corsa proprio nel Louvre identificandosi in Franz, Arthur e Odile, appunto i tre giovani spensierati che girano per Parigi con una vecchia Simca decapottabile e passano le giornate tra un corso d’inglese e un bistrot dove bere qualcosa e fantasticare sul loro futuro. A partire dal 1966 Godard sposa definitivamente le teorie marxiste: il cinema diviene il luogo in cui mettere in atto una severa critica della civiltà dei consumi e della mercificazione dei rapporti umani, ma anche in cui si possa riflettere sullo stesso statuto dell’immagine come portatrice “naturale” di un’ideologia. Il problema della prassi diviene una costante della fase “politica” di Godard, nei film “La cinese” 1967 e “Week-end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica” 1967. Dopo aver esaminato la possibilità di mettere in pratica un cinema realmente rivoluzionario (La gaia scienza, 1968), Godard fonda nel 1969 con altri cineasti il Gruppo Dziga Vertov, sperimentando un cinema collettivo e rifiutando il ruolo di autore nella convinzione che esso sottintenda un’ideologia autoritaria e gerarchica. Nello stesso anno dirige il documentario “Lotte in Italia”, un film per la televisione italiana che si interroga sui rapporti tra film, rappresentazione e ideologia attraverso il racconto di una ragazza borghese che milita in un gruppo extraparlamentare pur rimanendo legata all’ideologia della sua classe d’origine. Inoltre da ricordare come film di dello stesso periodo è “Le Vent d’est” (1969) unico film con il quale ha lavorato con l’attore italiano: Gian Maria Volontè. Dopo un periodo di inattività, Godard nel 1972 realizza, insieme a Jean-Pierre Gorin, “Crepa padrone, tutto va bene”, un’indagine sullo stato degli intellettuali nella stagione del riflusso post-sessantottesco. La fine del movimento segna per Godard una pausa di ripensamento. Dopo alcune conferenze tenute presso l’Università di Montréal e all’opera “Introduction à une véritable histoire du cinéma”, che verrà pubblicata nel 1980, si ritira a Grenoble, dove lavora per alcuni anni ai laboratori di Sonimage sperimentando tecniche cinematografiche a basso costo (Super 8, videoregistratori, ecc). Dopo l’approdo alle tecnologie elettroniche e al video inizia il terzo periodo, quello dell’ultimo Godard, improntato ad una nuova e intensa sperimentazione in cui il video, che convive strettamente con il cinema, viene usato per una critica nuova fatta per immagini alle stesse immagini, anche le proprie. Nel 1975 con Numéro deux Godard riparte utilizzando la nuova strumentazione video e mettendo in scena non un irrequieto rapporto di coppia, ma un irrequieto rapporto familiare, mescolando la documentazione reale con la fiction, la vita con la sua rappresentazione. Nasce un’attenzione più viva per le tematiche del privato, soprattutto quella familiare, che vengono ripresi con toni maggiormente intimistici come in Si salvi chi può (la vita) (Sauve qui peut (la vie)) (1980). In questo periodo Godard riesce a valorizzare la pura immagine a scapito del racconto utilizzando serie di sequenze autonome simili a quadri staccati dalla trama e godibili per la loro sola bellezza come in “Passion “ (1982) che può essere preso ad esempio della sua nuova concezione estetica dell’immagine. Così, nei successivi “Prénom Carmen“ (1983) che vinse il Leone d’oro a Venezia, e “Je vous salue, Marie” (1984) si vede come il testo sia solo un pretesto per un libero assemblaggio fatto di giochi di parole, citazioni disparate, brani di musica, ripresa di scenari naturali, come le onde del Lago Lemano in “Prénom Carmen” che diventano uno dei principali leitmotiv visivi del regista. Nelle opere di questo terzo periodo si affianca alla compostezza dell’immagine, il motivo ricorrente della musica classica, soprattutto di Mozart e Beethoven che già erano presenti nei film del primo periodo. Nel 1988 per Canal Plus, viene ideato il progetto “Histoire(s) du cinéma” che durerà fino al 1997 e dalla cui esperienza nasceranno quattro volumi con tutti i materiali interpretativi e iconografici che verranno pubblicati nel 1998. Con il film “Nouvelle Vague” del 1990 e con “Hélas pour moi” del 1993, Godard riesce a scrivere l’intera sceneggiatura senza usare una sua parola ma facendo dire ai personaggi frasi di altri per lasciare libero spazio alle immagini che, con la loro musica interna, creano una perfetta geometria. Nel film “Germania nove zero”, che si modella su “Germania anno zero” di Rossellini, Godard si diverte a giocare con le lingue (il francese e il tedesco), come già aveva fatto nei film del primo periodo (“Fino all’ultimo respiro” dove aveva utilizzato l’inglese e il francese e ne “Il disprezzo” (l’inglese, l’italiano e il francese). “Éloge de l’amour” del 2001 è un insieme di motti di spirito, gag paradossali, detti celebri, inversioni di struttura come il colore della seconda parte del film in contrasto con il bianco e nero della prima parte i cui avvenimenti accadono due anni dopo. Seguono i film Notre Musique (2004), Film socialisme (2010), Adieu au langage – Addio al linguaggio (2014) con cui si aggiudica il Premio della Giuria al Festival di Cannes e Le livre d’image (2018) per cui riceve una Palma d’Oro speciale.
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