Settant’anni fa, il 1° marzo del 1954 a Bikini, gli Stati Uniti fecero esplodere la Bomba H, l’ordigno più potente che sia mai stato costruito. Castel Bravo – il nome in codice del test nucleare – era mille volte più letale delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Per ricordare questo evento RaiTeche pubblica su RaiPlay “Ritorno a Bikini”, un reportage di Filippo De Luigi e Catherine Grallet, realizzato interamente a colori e trasmesso il 9 marzo del 1972 nell’ambito del programma per ragazzi “Avventura”.
Quando tutto ebbe inizio
Già dal 1946 l’atollo era stato evacuato e destinato agli esperimenti nucleari statunitensi: 25 anni dopo per la prima volta una troupe televisiva sbarca sull’atollo di Bikini. È una troupe italiana e ci racconta cos’è rimasto dell’atollo e dei suoi abitanti. Un racconto dai toni cupi e visionari, un monito tristemente attuale e quanto mai necessario.
Siamo nell’Oceano Pacifico, a metà strada tra le Hawaii e l’Australia. L’atollo di Bikini si estende nella zona settentrionale delle Isole Marshall, un gruppo di isole, atolli e piccoli arcipelaghi. Durante la Seconda guerra mondiale, i giapponesi colonizzano e militarizzano la zona. Finisce la guerra, Bikini diventa possedimento americano.
Sabbia bianca e mare cristallino, ma soprattutto una zona isolata, remota: è il luogo ideale, secondo l’amministrazione statunitense, per condurre esperimenti nucleari durante la Guerra fredda. La popolazione è costretta ad un esodo forzato, e la zona è dichiarata area proibita: è l’inizio di una lunga odissea.
L’impossibile ritorno
Agli abitanti di Bikini viene a mancare la terra sotto i piedi: sono trasferiti da un’isola all’altra, prima a Rongrik dove affrontano la carestia e sono esposti alle conseguenze del fallout radioattivo, poi a Kwajalein e infine a Kili. Nel 1968, una commissione andò a Bikini a studiare la possibilità per gli abitanti di tornare, ma l’esito fu negativo. “Noi siamo i pellerossa del XX secolo”: in questa preziosa testimonianza, microstoria e macrostoria si incontrano. Le telecamere della Rai danno voce a un popolo raggiunto e schiacciato dalla Storia con la “s” maiuscola.
All’epoca del reportage, nel 1972, la troupe raggiunge l’atollo a bordo di un vecchio idrovolante giapponese, residuato della Seconda Guerra mondiale. Non può sostare per più di 24 ore: la restrizione è stata imposta dalla commissione per l’energia atomica di Washington perché il rischio di contaminazione è troppo altro.
Intere isole sparite
“Sono Samuel e la mia terra è l’atollo di Bikini”: per gli intervistati, venticinque anni dopo la speranza è quella di tornare a casa. Ma l’atollo è irriconoscibile, mancano intere isole; un deserto avvelenato. Le esplosioni hanno alterato l’equilibrio ecologico e la struttura biologica di flora e fauna, non si possono neanche piantare gli alberi. Le immagini che arrivano a noi sono angosciose e spettrali, ma anche urgenti e necessarie: la prova che il mondo come lo conosciamo potrebbe sparire da un momento all’altro.